venerdì 1 febbraio 2019

Investì un poliziotto. Pena ridotta in appello da da 17 anni a 3 anni di reclusione.


L’episodio accaduto nel novembre 2008 a La Mortola, frazione di Ventimiglia, era costato una condanna per tentato omicidio a Franco Trotti, un idraulico cinquantenne residente a Mentone a cui il giudice di Imperia Donatella Aschero aveva inflitto 17 anni e mezzo nel novembre 2017. 

La sentenza è stata notevolmente «mitigata» ieri dai giudici della Corte d’Appello di Genova. Hanno prevalso le tesi difensive del difensore, l’avvocato Roberto Rum, che è riuscito a far derubricare: non più tentato omicidio ma resistenza a pubblico ufficiale. Da 17 anni e mezzo la pena è calata a tre anni e quattro mesi, appesantita più che altro da alcuni precedenti gravanti sulla fedina penale di Trotti.

All’epoca Trotti era inseguito da un mandato di cattura. Questa sua condizione lo aveva forse spinto, quel 6 novembre di 11 anni fa, a pigiare sull’acceleratore invece che fermarsi al posto di controllo istituito dalla polizia a La Mortola. Come si verrà a sapere più tardi, sul suo capo pendeva una condanna a un anno e sette mesi per un accumulo di pene passate in giudicato. Trotti venne fermato il giorno dopo dai carabinieri a Bordighera e arrestato.

Il sindaco di Amatrice: “Ci hanno abbandonato, il governo pensa solo ai migranti”

 Il sindaco di Amatrice: “Ci hanno abbandonato, il governo pensa solo ai...
Filippo Palombini, sindaco di Amatrice

Roma, 31 gen – Nessuna bufala populista ma una realtà scomodissima e tagliente: come il freddo che tormenta i terremotati. Come le promesse illusorie ad oggi disattese. È vero, sui social, con faciloneria, qualcuno ha diffuso l’immagine di un campo in Libano sommerso dalla neve. Ma nessuno di chi ha denunciato l’abbandono di Amatrice, ha mai sostenuto che si trattasse della cittadina colpita dal sisma del 2016. Un’immagine non attinente alla notizia, comunque, non compromette la veridicità dello status quo. Quindi ad Amatrice l’emergenza c’è: è reale, come l’ipocrisia meschina di chi strumentalmente nega l’evidenza.
Ad avvalorare questo, ci pensa direttamente il sindaco Filippo Palombini. Disposto a dimettersi, in segno di protesta, contro una ricostruzione che non è partita mai e che ha lasciato i suoi cittadini senza casa né lavoro. Lo ha dichiarato lui stesso, durante la trasmissione Stasera Italia. Parole forti, come solo la realtà è capace di essere: “Siamo stati messi in disparte dopo la tragedia di Genova e dopo il terremoto di Catania. Non possiamo continuare a vivere di decreti che non riguardano direttamente le nostre emergenze. La ricostruzione non è mai partita”. Lecito chiedersi che fine abbiano fatto i soldi raccolti in favore dei terremotati.
E una volta calato il sipario mediatico, sulla tragedia del sisma, perché non si è agito? Se lo staranno chiedendo gli sfollati: mentre si condanna la presunta disumanità di un Paese che taccia di razzismo il “prima gli italiani”. Ad Amatrice nessuna sfilata di “politici illustri”. Per Amatrice, nessuna parola di solidarietà. “Il governo si è dimenticato di noi – prosegue Palombini – se non avranno risposte sulla ricostruzione, tutti i sindaci del cratere marceranno presto uniti e rimetteranno il mandato. Siamo rimasti senza interlocutore e senza guida”.
Amatrice e tutte le zone terremotate cancellate dalla cartina geografica. Dimenticate due volte: fattivamente (per i mancati aiuti) e moralmente (per l’ipocrisia, vile, di chi si affanna a gridare alla “fake news”). “A Roma pensano solo ai migranti, ci hanno abbandonato”, continua nella sua denuncia, il primo cittadino. Un vaso di Pandora scoperchiato, il trucco del prestigiatore smascherato in maniera inconfutabile. La realtà di Amatrice e delle zone distrutte dalla furia del sisma, è questa. La sopravvivenza su un’isola deserta: circondata da neve, silenzio e menefreghismo. E strozzata da chi confeziona bufale: non da mangiare, ma con cui coprirsi (e coprire) gli occhi propri ed altrui. Per i terremotati, nessun “prima gli italiani”: i buonisti immigrazionisti, possono dunque stare tranquilli.

Omicidio Duccio Dini: tre rom sconteranno la pena nelle case popolari

Il giovane fu una vittima innocente dell'inseguimento a folle velocità fra le strade di Firenze da parte di due gruppi di rom



Omicidio volontario. Questo il pesante capo di imputazione col quale un gruppo di rom, complici della morte del giovane Duccio Dini, furono rinchiusi nel carcere fiorentino di Sollicciano.
La permanenza nelle patrie galere è però durata assai poco.
Nel giro di due mesi dal tragico evento infatti, suscitò grande clamore la decisione di scarcerare uno degli imputati. Il 27enne macedone poté così godersi il Ferragosto ai domiciliatri con la famiglia.
Oggi a meno di otto mesi dall'incidente, a seguito della decisione del tribunale per il riesame, altri tre imputati lasciano il carcere per gli arresti domiciliari. La richiesta, avanzata dagli avvocati difensori, è stata completamente recepita dal tribunale ed è stato disposto l'utilizzo del braccialetto elettronico.
A restare in carcere quindi, di tutto il gruppo coinvolto nell'omicidio del 29enne fiorentino, sarà solamente Mustafa Deheran, passeggero nell'auto coinvolta nella morte di Duccio e già noto alle forze dell'ordine per rapina, furto, ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale.
Se fin qui la storia ha dell'incredibile, l'indignazione sale nel momento in cui si scopre che, gli alloggi nei quali i rom sconteranno la pena sono case popolari del comune di Firenze.
"Oltre il danno la beffa" - queste le prime parole della coordinatrice toscana della Lega Susanna Ceccardi -"I rom non solo sono stati scarcerati ma sconteranno la pena nelle case popolari del comune" - dice il sindaco di Cascina al telefono con la redazione de IlGiornale.it - "Se il comune, se Nardella, avesse applicato norme più stringenti nell'assegnazione delle case popolari, sicuramente questa assurda vicenda non avrebbe avuto questi contorni grotteschi. La solidarietà alla famiglia di Duccio Dini non puo essere solo a parole o con proclami che non trovano alcun riscontro nella pratica. Per questo a Firenze andranno cambiati i regolamenti di assegnazione degli alloggi popolari, come abbiamo fatto nei comuni amministrati dal centro destra. Il nostro impegno, nei comuni che andranno al voto, sarà quello di evitare che vinca la politica del buonismo sfrenato che ha già causato fin troppi danni."

Minorenni bruciarono vivo un clochard per noia: non faranno neanche un giorno di carcere


Clochard carbonizzato vivo a Santa Maria di Zevio, servizi sociali ai ragazzi. Il 13 dicembre 2017 due minorenni avevano dato fuoco alla Bravo in cui viveva Ahmed Fdil “per noia”, come aveva dichiarato il più piccolo dei due, allora tredicenne. Con il 17enne, i due avevano lanciato all’interno della vettura dove viveva l’uomo alcuni pezzi di carta incendiati, un gesto che fece prender fuoco alla “casa” del senzatetto. Oggi il tribunale dei minori di Venezia ha stabilito una sospensione della pena che farà sì che, se il tredicenne non era imputabile, il 17enne continuerà ad essere affidato ai servizi sociali per i prossimi tre anni. Se il comportamento del giovane sarà ineccepibile, allora la pena sarà estinta. La scelta del giudice non ha incontrato i favori del nipote della vittima, che in aula si è scagliato contro lo stesso giudice chiedendosi quanto allora valesse la vita dello zio. Un comportamento che l’ha fatto finire fuori dall’aula del tribunale. “E’ una situazione difficile, il mio cliente viene da un Paese in cui non ci sono questi sconti di pena. Prendo atto dell’ordinanza di sospensione, perché non si tratta di una sentenza, che però non condivido per il tipo di reato”. Sono queste le parole con cui l’avvocato di Ahmed Fdil, Alessandra Bocchi, ha commentato la decisione di non mandare in carcere i due ragazzi che il 13 dicembre 2017 avevano provocato la morte del clochard con il lancio di alcuni petardi nell’auto dove viveva l’uomo. Per l’avvocato, incaricato dal nipote della vittima Salah Fdil, la situazione non può essere risolta così: “Si tratta di omicidio aggravato in concorso, con minorata difesa dato che Ahmed non poteva difendersi trovandosi all’interno dell’auto in cui viveva. Un reato che non si può scontare con il volontariato, come la ginnastica o la psicoterapia. Il ragazzo ha 17 anni, ne fa 18, ma si deve anche comprendere il disvalore sociale dell’azione”. Bocchi ritiene che la pena non sia commisurata all’effetto sortito dall’azione dei due ragazzi: “Come dice il professor Crepet, la pena dovrebbe esser scontata in un reparto di grandi ustionati, stiamo parlando di devianza minorile. E’ un messaggio gravissimo perché la presa in carico ai servizi sociali dopo aver appreso il tipo di lesione non è commisurata. Stiamo parlando di una morte provocata con una sofferenza unica, infinita, che non abbiamo la possibilità di comprendere. Ahmed ha tentato di uscire, ma era bloccato. E’ morto carbonizzato vivo, aveva le vie aeree pulite, si tratta di una morte tremenda, in cui servizi sociali e volontariato vanno bene fino a un certo punto. Questo è un messaggio non commisurato al reato che hanno commesso”. Da ultimo, il commento dell’avvocato è stato anche su come abbia preso la notizia il nipote del clochard: “Malissimo. Ha chiesto al giudice quanto valesse la vita dello zio. Il giudice gli ha chiesto di farselo spiegare dal suo avvocato e la risposta è stata la richiesta di giustizia e non di vendetta. Una situazione imbarazzante, anche quando Salah ha definito tutto questo un circo, prima di uscire spontaneamente dall’aula”.

Islam:L Scuola islamica nella bufera: «Le alunne possono mangiare in mensa solo quando i maschi hanno finito»



Una scuola islamica, nonostante un richiamo prodotto da una sentenza, non si è adeguata agli standard educativi richiesti e, da due anni, è protagonista di numerosi episodi di discriminazione. Tra questi, ad esempio, c'è una regola che costringe le alunne a mangiare separatamente dai maschi e impedisce loro di poter usare la mensa finché tutti gli alunni non hanno finito.





Il caso sta scatenando diverse polemiche in Gran Bretagna, dopo la denuncia dell'Office for Standards in Education, Children's Services and Skills (Ofsted), un'autorità che dipende dal Parlamento e che è chiamata a valutare la conformità alle regole nazionali da parte di tutte le scuole. Come riporta l'Independent, la scuola Al-Hijrah, di Birmingham, si è resa protagonista di un grave episodio di discriminazione nonostante fosse già stata richiamata ad adeguarsi ad una sentenza pronunciata nel 2017.

Luke Tryl, dirigente dell'Ofsted, ha spiegato: «In quella scuola continua ad esserci una segregazione di genere, alle bambine viene impedito di mangiare finché gli alunni maschi non finiscono i loro pasti. Inoltre, ci sono libri di testo estremamente discriminatori, che incoraggiano la violenza sulle donne». Il caso è stato portato al Parlamento, dove Tryl ha denunciato: «Le scuole hanno ovviamente bisogno di un periodo di transizione per adeguarsi alle regole, ma nonostante il richiamo non è cambiato nulla in quasi due anni».

La denuncia del dirigente dell'Ofsted non riguarda però solo la scuola islamica di Birmingham: «Ci sono tantissimi altri istituti che continuano a violare delle norme assolutamente condivisibili, e a nulla sembrano servire i nostri richiami. Ci sentiamo soli, il nostro lavoro non viene supportato a livello istituzionale».

Paura sul tram, nigeriana beccata senza biglietto picchia il controllore e gli frattura un dito


Una donna nigeriana senza biglietto prova a sfuggire al controllore che ha intercettato un suo maldestro tentativo di dileguarsi inosservata: beccata, reagisce picchiando l’impiegato che l’ha colta in flagrante e fratturandogli un dito. Dunque, ancora un’aggressione sul tram: e ancora una volta l’aggressore è uno straniero e la vittima un controllore nell’esercizio delle sue funzioni. Stavolta succede tutto su una linea del servizio pubblico del Padovano, a bordo di un tram, partito da Pontevigodarzere con destinazione Guizza. Ma pochi giorni fa è accaduto a Firenze, e prima ancora a Genova, e prima ancora a Roma, Torino, Milano…

Nigeriana beccata senza biglietto picchia il controllore e gli frattura un dito

Non c’è scampo, insomma: e oggi controllori di bus in transito nelle nostre città, come i capotreno in servizio sulle linee ferroviarie regionali, lavorano in trincea, alle prese con passeggeri agguerriti, furiosi, violenti. L’ultima aggressione a bordo, allora, si è registrata nella mattinata di ieri quando, come riferisce tra gli altri Il giornali, riprendendo la notizia rilanciata da Il Mattino di Padova, «una cittadina nigeriana durante una verifica da parte dei dipendenti BusItalia, ha colpito con violenza un controllore fratturandogli il dito». Tutto perché pizzicata senza biglietto durante un normale controllo di routine improvvisato, a cui la donna straniera ha cercato di sottrarsi. Un tentativo intercettato tempestivamente dal controllore che, vedendo come la nigeriana provava a dileguarsi, ha provato a trattenerla tanto che la donna, con una reazione spropositata, ha afferrato l’uomo per le mani e stringendogliele con estrema violenza è arrivata a fratturargli un dito. E così, mentre l’impiegato, ferito e dolorante, veniva accompagnata al pronto soccorso – da dove sarebbe uscito con una prognosi di 30 giorni – per la nigeriana scattava la denuncia per lesioni aggravate di cui, senza vie di fuga possibili, è chiamata a rispondere.

Il prof. Sinagra: “Sea Watch andrebbe sequestrata e gli immigrati rimpatriati”

Il prof. Sinagra: “Sea Watch andrebbe sequestrata e gli immigrati rimpatriati”
Il professor Augusto Sinagra

Trieste, 31 gen – Viste le numerose polemiche sul caso Sea Watch, e il caos che si sta generando soprattutto per il procedimento penale intrapreso dai PM di Agrigento nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Salvini, oggi cerchiamo di mettere un po’ d’ordine in questa vicenda. Lo facciamo col prof. Augusto Sinagra, docente all’Università “La Sapienza” di Roma, dove insegna Diritto dell’Unione europea presso la facoltà di Scienze Politiche. Classe 1941, nato a Catania, famosa, assieme a Palermo, per la grande cultura giuridica che da sempre si sviluppa nell’isola, si laurea con lode all’Università di Palermo. Dopo 15 anni di magistratura, dal 1965 al 1980, lascia con la qualifica di Consigliere di Corte d’Appello per dedicarsi ad una prestigiosa carriera accademica. È stato docente di diritto internazionale all’università di Trieste, di Genova e di Chieti. Il curriculum accademico del prof. Sinagra vanta anche molte docenze di grande spessore come quelle presso la Scuola Ufficiali dei Carabinieri a Roma, quella presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione della Presidenza del Consiglio dei e quello alla Libera Università Internazionale degli Studi Sociali (LUISS) “G. Carli” di Roma. Oltre ad una grande carriera accademica e, dal 1980, a una importante attività come avvocato cassazionista, è stato anche consulente dell’Ufficio Studi e Documentazione della Camera dei Deputati, consulente giuridico al Ministero degli Affari Esteri, presso il Servizio del Contenzioso Diplomatico e presso l’Ufficio del Delegato Italiano per gli Accordi in materia di Proprietà Industriale ed Intellettuale (partecipando per conto del Governo italiano a numerose conferenze e riunioni internazionali, anche in ambito comunitario).
Partiamo dal caso della Sea Watch. Secondo lei si tratta di un problema di tipo giuridico?
In più occasioni ho fatto presente una mia riflessione che può apparire paradossale ma che riflette la verità delle cose: lo dico con ironia, ma i giuristi spesso sono soggetti socialmente pericolosi. E guardi che lo dico da giurista. Voler dare una spiegazione in termini giuridici a situazioni che precedono o sovrastano lo schema giuridico è una operazione che poi porta a conclusioni inverosimili. La situazione della immigrazione illegale e incontrollata nella quantità e nella qualità è un qualcosa che va oltre gli schemi giuridici esistenti. Si tratta di un problema politico sulla base di una considerazione semplice. Lo schema giuridico preesistente ha riguardo a situazioni o conosciute al momento della introduzione della disciplina giuridica riconducibili ad una idea di normalità. Qui siamo in presenza di una situazione che non riveste alcun carattere di normalità, non soltanto per la quantità e la qualità dei soggetti che pensano di entrare illegalmente sul territorio dello Stato, ma si tratta di una vicenda che come ha osservato l’ex magistrato, Carlo Nordio, ha riguardo ad una pre-organizzazione di queste situazioni, nel senso di corrispondere a un progetto politico preordinato all’invasione e non finalizzato al salvataggio e alla tutela. È chiaramente finalizzato alla destabilizzazione dello Stato non soltanto in termini di ordine pubblico o di tenuta delle istituzioni democratiche, ma preordinato al disfacimento dell’ordine economico dello Stato. Questa invasione che si vorrebbe incontrollata con tutti i porti aperti, non soltanto è una idiozia intrinseca perché l’Italia in termini di estensione e di popolazione non può far fronte a tutti, ma è una operazione finalizzata a “cinesizzare” il mercato del lavoro portando i salari al livello più basso possibile per favorire capitale di rapina e smantellare lo Stato Sociale. Di fronte a questa situazione ragionare in termini giuridici citando la convenzione di Montego Bay, il regolamento Dublino 3, la legge italiana in materia di immigrazione e le prese di posizione del Consiglio europeo, è una operazione assolutamente idiota a voler esprimere un giudizio pacato. Per questo dico che i giuristi, che cercano di affrontare il problema da un punto di vista squisitamente giuridico, continuano a porre la questione nei termini sbagliati.
Come valuta allora l’attività dei pubblici ministeri di Agrigento che hanno deciso di muovere un’accusa così importante al Ministro Salvini?
Guardi, quello che è successo ha del paradossale. I 3 giudici di Catania si sono arrogati il potere di valutare l’esimente della necessità dell’ordine pubblico o della utilità o necessità di consultazione tra il governo italiano e le istituzioni europee in quei quattro giorni durante i quali si sarebbe consumato il reato di sequestro di persona. Questo è il ribaltamento dello Stato di diritto. Se si continua a ragionare in termini giuridici si sbaglia. Quando si mette mano all’interpretazione delle norme giuridiche, purtroppo, è possibile arrivare ad ogni conclusione.
Ma in questo caso c’è una base giuridica normativa?
Le rispondo sinteticamente. Si tratta di stupidaggini. Partiamo prima di tutto dal fatto che il magistrato Luigi Patronaggio, che fa il Pubblico Ministero ad Agrigento, non solo ha violato ogni regola di competenza territoriale, perché lui era ad Agrigento ma la nave si trovava a Catania; volendo andare oltre questo aspetto, è bene ricordare che lo stesso dott. Patronaggio si recò a Catania e constatò di persona il sequestro perché questa fu l’accusa iniziale mossa dallo stesso Pubblico Ministero. E, dopo aver appurato che si stava consumando un reato, cosa ha fatto? Invece di ordinare alla polizia giudiziaria, posta alle sue dipendenze, di porre termine al reato in atto di sequestro di persona, non ha fatto nulla. Se l’impostazione è questa, allora io esigo che l’accusa mossa al Ministro Salvini (che è campata per aria, sia chiaro) venga estesa anche al Pubblico Ministero dott. Patronaggio per concorso nel reato di sequestro di persona.
Quindi se non ragionano in termini giuridici, cosa c’è alla base?
Dubito che ci sia un ragionamento giuridico alla base dell’azione del Pubblico Ministero di Agrigento. Prima di tutto perché il dott. Patronaggio ha violato le regole sulla competenza territoriale come dicevo. Secondo poi, perché se lui fosse stato convinto che si stesse consumando il delitto di sequestro di persona avrebbe avuto l’obbligo giuridico di ordinare alla polizia giudiziaria di porre termine alla perduranza del delitto ascritto al Ministro Salvini facendo scendere i poveri naufraghi dalla nave.
E sul processo a Salvini cosa pensa? Dovrebbe farsi processare per porre la parola fine a questa tarantella?
Salvini non deve difendere la sua persona ma le prerogative ministeriali. Il Pubblico Ministero non può gestire delle prerogative che spettano al Ministro dell’Interno per sue posizioni politiche personali. Per questo, secondo me, dovrebbe opporsi alla richiesta di autorizzazione a procedere.
Quindi secondo lei sarebbe sbagliato permettere la celebrazione del processo al Ministro?
Certo, perché parliamo di un problema politico. E la magistratura deve smetterla di occuparsi di politica. Quest’ultima la si fa nelle aule parlamentari o nelle stanze del Governo, non nei tribunali. Da sempre i magistrati tentano di fare politica; chiaramente non mi riferisco a tutti i giudici perché molti fanno il loro lavoro in modo corretto e leale; ma una parte della magistratura deve smetterla di intromettersi in questioni politiche con l’azione giudiziaria.
Tornando al caso Sea Watch, correttamente lei ha osservato che ad oggi qualsiasi ragionamento in termini giuridici è inutile. Se volessimo, tuttavia, provare ad addentrarci nella sfera giuridica, che tipo di ragionamento potremmo fare?
Se fossi obbligato a farlo, e lei lo sta facendo contro la mia volontà perché, come le dicevo, è stupido ragionare in termini giuridici su una questione politica, allora le rispondo. Questa nave, la Sea Watch, batte bandiera olandese. È noto a chiunque abbia letto un manuale di diritto internazionale, che ogni nave che batte una bandiera, di qualunque Stato si tratti, è da considerarsi come una comunità viaggiante di quello Stato, nel senso che la nave, pure in acque territoriali di uno Stato terzo, è territorio dello Stato della bandiera. In termini di giurisdizione, quando la nave è in mare alto gli Stati terzi possono intervenire coattivamente nei confronti di quest’ultima quando la nave pone in atto illeciti di carattere internazionale come ad esempio tratta di essere umani, contrabbando, traffico o commercio di armi. Quando, viceversa, la nave si trova in acque territoriali di uno stato terzo, come nel caso della Sea Watch, lo Stato della costa può intervenire sulla nave quando sulla stessa o con la stessa vengono posti in essere atti penalmente rilevanti o incidenti sull’ordine pubblico dello Stato della costa.
E quindi?
Quindi, in questo momento, la Sea Watch è strumento di immigrazione illegale nel territorio della Repubblica Italiana. Pertanto il profilo giuridico per impedire lo sbarco di questi 47 soggetti è riferibile alla norma nazionale che vieta l’immigrazione illegale, cosa che, tra l’altro, è in linea con le decisioni assunte in sede di Consiglio europeo (già indicate nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea) che prevede il contrasto all’immigrazione illegale. Si aggiunga, poi, che i poveri naufraghi salvati fortunosamente dai marosi si trovano a vederli nelle fotografie, alti, grossi, aitanti e muniti di smartphone. Tutto questo lascerebbe pensare che non si tratti di quella figura di naufrago conosciuta non soltanto nella esperienza romanzesca di Emilio Salgari, ma anche attraverso le norme giuridiche. Ricordo che il naufrago è chi effettivamente si è trovato involontariamente e fortunosamente in una situazione di pericolo che mette a rischio la propria vita. In questi casi pare accertato l’intesa illecita tra la Sea Watch e il suo proprietario con gli scafisti. E a questo si aggiunga anche la questione del porto sicuro più vicino. Con mare mosso, il comandante di questa nave anziché raggiungere il porto più vicino, e quindi quello più sicuro, che è quello della Tunisia a sole 40 miglia nautiche, cambia direzione col mare in tempesta e mettendo a rischio la vita dei cosiddetti naufraghi da lui salvati, e si fa 240 miglia puntando verso l’Italia. È evidente che l’obiettivo era di corrispondere ad un pagamento ricevuto a fronte di un impegno contrattuale di portare questa gente in Italia e solo in Italia. Ma pensano che siamo così fessi da non vedere tutto questo?
Quindi è sbagliato domandarsi se il Ministro può o non può chiudere i porti…
Certo che è sbagliato, perché il Ministro dell’Interno deve impedire lo sbarco ad ogni costo e nel rispetto delle norme dell’Unione europea, del diritto internazionale generale e di quella interna che nella specie riflette esigenze di ordine pubblico interno.
Se lei fosse il Ministro dell’Interno cosa farebbe? Perché il problema è che casi come quello della Sea Watch si ripresenteranno in modo ciclico…
Ovviamente. Sono convinto che il mese prossimo ci sarà un altro caso Sea Watch. Se fossi nel Ministro chiuderei i porti alla immigrazione clandestina. E, lo ribadisco, vanno tenuti chiusi per non favorire il traffico di schiavi, le organizzazioni criminali degli scafisti e i comportanti illeciti di talune Organizzazioni Non Governative. Nel caso specifico della Sea Watch, va impedito lo sbarco e la nave rimandata in mare alto affinché vada dove vuole; in alternativa è possibile intervenire sulla nave, sequestrarla, arrestare il capitano e l’equipaggio e rimpatriare i 47 naufraghi là dove erano partiti.
Però, mi perdoni, questa è una soluzione tampone; o meglio, è la soluzione al caso specifico. Se volessimo pensare ad una soluzione più strutturale?
Allora l’Italia deve prendere in considerazione il blocco navale delle coste. È evidente che per far fronte ad una situazione straordinaria, servono mezzi straordinari. Forse qualcuno se n’è dimenticato, ma nel 1997 fu proprio il Governo Prodi a imporre il blocco navale delle coste ai tempi dell’immigrazione albanese. E quella volta nessuno disse cotica nonostante questo causò la morte di oltre 100 albanesi. Perché adesso nei confronti della Libia non si può fare?
Beh, qualcuno sostiene che si tratterebbe di un atto di guerra…
Ma quale atto di guerra. Il blocco non riguarderebbe le navi che svolgono un’attività lecita, ma esclusivamente coloro che si danno ad attività illecite.