Secondo
la versione ufficiale, i crolli delle Torri Gemelle sono stati crolli
gravitazionali, ossia crolli avvenuti grazie alla sola forza di gravità e
al peso dei piani in caduta, senza esplosivi o sostanze incendiarie che
li "aiutassero" rimuovendo le strutture portanti man mano che
l'edificio crollava.
Il problema, che è anche il motivo per cui tanti ingegneri, scienziati e fisici contestano questa versione dei fatti, è che le Torri sono crollate con modalità fisicamente impossibili da ottenere con un crollo gravitazionale.
Più precisamente, la simmetria, la rapidità e la totalità di quei crolli possono essere ottenute solo grazie all'uso di esplosivi o di sostanze incendiarie che accelerino, rendano uniforme e facciano continuare il crollo fino al suolo (anche dopo che l'energia cinetica dei piani in caduta si è esaurita), perché alcune leggi fisiche impediscono che si possano ottenere crolli con quelle caratteristiche grazie alla sola gravità.
Vediamo ora le esatte leggi fisiche che la versione ufficiale vìola e le relative analisi matematiche e fisiche che lo dimostrano (con tanto di calcoli):
Il Secondo Principio della Termodinamica dimostra che crolli con quella simmetria non avrebbero potuto essere innescati da incendi asimmetrici e non avrebbero potuto poi essere portati avanti dalla sola gravità, e prova che una precisione simile si può ottenere solo artificialmente.
La formula per calcolare la caduta di un grave nel vuoto e quella per calcolare la resistenza aerodinamica dimostrano che crolli così rapidi ("essenzialmente in caduta libera", come ha detto il rapporto del NIST) non avrebbero mai potuto verificarsi grazie alla sola gravità. Dei crolli gravitazionali avrebbero impiegato circa 98 secondi per sconfiggere la resistenza offerta da ogni piano e quella dell'aria e arrivare fino a terra, e in questa analisi si dimostra che perfino togliendo dall'equazione la resistenza dell'aria il tempo minimo per un crollo gravitazionale sarebbe stato di 30,6 secondi. Viene anche dimostrato che l'unico modo per far crollare le Torri Gemelle rapidamente come hanno fatto sarebbe stato far cedere i piani sottostanti una frazione di secondo PRIMA che i piani superiori potessero schiantarsi su di essi. Cosa ovviamente impossibile in un crollo gravitazionale e ottenibile solo tramite esplosivi o sostanze incendiarie pre-posizionate.
La formula per calcolare il Trasferimento della Quantità di Moto dimostra che crolli così totali non avrebbero potuto verificarsi senza l'aiuto di esplosivi, perché la gravità e il peso dei piani in caduta da soli non potevano generare abbastanza energia cinetica per distruggere l'intero edificio fino alle fondamenta com'è avvenuto. Senza "aiuti" artificiali, il crollo si sarebbe fermato dopo pochi istanti, anziché continuare fino a terra come ha fatto.
La formula per calcolare la Conservazione del Momento conferma che dei crolli gravitazionali non avrebbero mai potuto essere così rapidi, perché se due masse identiche collidono e restano unite (come avrebbe fatto ogni piano delle Torri con quello sottostante, secondo la versione ufficiale), la velocità a cui viaggeranno sarà la metà di quella a cui viaggiava la massa originaria. Questo perché il piano sottostante offre inevitabilmente una certa resistenza e rallenta la caduta di quello soprastante (a meno che non venga fatto cedere con esplosivi prima che quello soprastante lo raggiunga: solo ed esclusivamente in quel caso non offre alcuna resistenza e non rallenta il crollo).
La formula per calcolare la Conservazione dell'Energia dimostra che, se anche nei crolli ci fosse stata abbastanza energia cinetica per far cedere tutti i piani fino alle fondamenta (e come abbiamo visto non c'era), in ogni caso non avrebbero potuto verificarsi sia il cedimento che la polverizzazione dei piani, perché quell'energia può essere utilizzata solo una volta (anche in questo caso, l'unico modo per ottenere entrambi i fenomeni contemporaneamente sarebbe stato l'impiego di esplosivi o sostanze incendiarie).
Il problema, che è anche il motivo per cui tanti ingegneri, scienziati e fisici contestano questa versione dei fatti, è che le Torri sono crollate con modalità fisicamente impossibili da ottenere con un crollo gravitazionale.
Più precisamente, la simmetria, la rapidità e la totalità di quei crolli possono essere ottenute solo grazie all'uso di esplosivi o di sostanze incendiarie che accelerino, rendano uniforme e facciano continuare il crollo fino al suolo (anche dopo che l'energia cinetica dei piani in caduta si è esaurita), perché alcune leggi fisiche impediscono che si possano ottenere crolli con quelle caratteristiche grazie alla sola gravità.
Vediamo ora le esatte leggi fisiche che la versione ufficiale vìola e le relative analisi matematiche e fisiche che lo dimostrano (con tanto di calcoli):
Il Secondo Principio della Termodinamica dimostra che crolli con quella simmetria non avrebbero potuto essere innescati da incendi asimmetrici e non avrebbero potuto poi essere portati avanti dalla sola gravità, e prova che una precisione simile si può ottenere solo artificialmente.
La formula per calcolare la caduta di un grave nel vuoto e quella per calcolare la resistenza aerodinamica dimostrano che crolli così rapidi ("essenzialmente in caduta libera", come ha detto il rapporto del NIST) non avrebbero mai potuto verificarsi grazie alla sola gravità. Dei crolli gravitazionali avrebbero impiegato circa 98 secondi per sconfiggere la resistenza offerta da ogni piano e quella dell'aria e arrivare fino a terra, e in questa analisi si dimostra che perfino togliendo dall'equazione la resistenza dell'aria il tempo minimo per un crollo gravitazionale sarebbe stato di 30,6 secondi. Viene anche dimostrato che l'unico modo per far crollare le Torri Gemelle rapidamente come hanno fatto sarebbe stato far cedere i piani sottostanti una frazione di secondo PRIMA che i piani superiori potessero schiantarsi su di essi. Cosa ovviamente impossibile in un crollo gravitazionale e ottenibile solo tramite esplosivi o sostanze incendiarie pre-posizionate.
La formula per calcolare il Trasferimento della Quantità di Moto dimostra che crolli così totali non avrebbero potuto verificarsi senza l'aiuto di esplosivi, perché la gravità e il peso dei piani in caduta da soli non potevano generare abbastanza energia cinetica per distruggere l'intero edificio fino alle fondamenta com'è avvenuto. Senza "aiuti" artificiali, il crollo si sarebbe fermato dopo pochi istanti, anziché continuare fino a terra come ha fatto.
La formula per calcolare la Conservazione del Momento conferma che dei crolli gravitazionali non avrebbero mai potuto essere così rapidi, perché se due masse identiche collidono e restano unite (come avrebbe fatto ogni piano delle Torri con quello sottostante, secondo la versione ufficiale), la velocità a cui viaggeranno sarà la metà di quella a cui viaggiava la massa originaria. Questo perché il piano sottostante offre inevitabilmente una certa resistenza e rallenta la caduta di quello soprastante (a meno che non venga fatto cedere con esplosivi prima che quello soprastante lo raggiunga: solo ed esclusivamente in quel caso non offre alcuna resistenza e non rallenta il crollo).
La formula per calcolare la Conservazione dell'Energia dimostra che, se anche nei crolli ci fosse stata abbastanza energia cinetica per far cedere tutti i piani fino alle fondamenta (e come abbiamo visto non c'era), in ogni caso non avrebbero potuto verificarsi sia il cedimento che la polverizzazione dei piani, perché quell'energia può essere utilizzata solo una volta (anche in questo caso, l'unico modo per ottenere entrambi i fenomeni contemporaneamente sarebbe stato l'impiego di esplosivi o sostanze incendiarie).

Da Reggio Emilia a New York "Quella mattina ero al World Trade Center": Martina Gasperotti racconta il suo 11 settembre Alle 8.46 dell'11 settembre 2001 Martina Gasperotti, igienista dentale di Reggio Emilia, era nella Torre Nord. Era il primo giorno del suo corso di inglese. Arrivata in anticipo, per ingannare l'attesa aveva deciso di dare un'occhiata al Windows of the World, il locale dove aveva deciso di passare la serata. Non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto
Quando le chiediamo cosa ricorda di quel giorno, Martina Gasperotti sorride. Perchè lei, quel giorno, se lo ricorda per filo e per segno. Aveva preso sei mesi di aspettativa dalla sua attività di igienista dentale per andare in America a studiare l’inglese. Il suo corso a New York sarebbe iniziato proprio l’11 settembre per finire a Natale, ma non è andata oltre il test d’ingresso. "La lingua alla fine non l’ho mai imparata"- racconta - "Questo è uno dei miei più grandi rimpianti". Era arrivata da meno di tre giorni Martina, ancora un po’ provata dal fuso orario e dalle grandi novità di una città come quella. "Avevo dormito poco ed ero arrivata davanti il grattacielo con largo anticipo". A pochi passi dal World Trade Center, decide di andare a dare un’occhiata agli orari del Windows of the World, il complesso di ristoranti situato al 107esimo piano della Torre Nord. Ha intenzione di passarci la serata: il locale che domina la città è una tappa obbligata per turisti e visitatori. Il primo aereo Martina è nella torre, parla al telefono con la madre e le racconta gli ultimi aggiornamenti del viaggio, poi cade la linea. «Ad un certo punto ho sentito un gran botto, la terra ha tremato. Ma non mi sono preoccupata più di tanto- spiega- dal primo giorno i rumori di New York mi erano sembrati molto strani e avevo finito per non farci più caso». In molti cominciano ad uscire, Martina è con loro. «Non mi sono accorta subito di cosa fosse successo perché avevo preso un’uscita dalla quale non si vedeva nulla: il primo aereo, rimasto nella struttura, era invisibile per chi non guardava dalla giusta prospettiva». Ma poi comincia a camminare e a guardare i volti delle persone: impietriti, qualcuno piange, tutti sono con il naso all’insù. «Ho alzato la testa anche io- dice Martina- e mi ricordo di aver notato l’insolito cielo azzurro e migliaia di fogli bianchi che volavano ovunque». In un attimo arrivano anche i mezzi di soccorso. Il crollo «Ho visto il secondo aereo trapassare la torre sud: prima la sua ombra sugli altri grattacieli e poi lo schianto, talmente forte che ancora oggi sono sensibile ai forti rumori. Una delle sensazioni più vivide? Il calore dell’esplosione che mi arrivava da sotto i piedi». Martina è sola, e prova a chiedere con il suo inglese stentato se le torri crolleranno, ma tutte le persone che sono intorno a lei la rassicurano: le torri gemelle non crolleranno mai. Poi invece comincia l’inferno, quell’inferno che chi ha vissuto l’11 settembre in tv non potrà mai veramente comprendere: «Non c’è un dettaglio che mi è rimasto particolarmente impresso- confida Martina- perché porterò sempre tutto con me. La polvere, le grida. La mia mente non lascerà mai andare certi ricordi, come le persone che si lasciavano cadere nel vuoto. Il rumore sordo dei corpi che cadevano a terra mi ha sconvolto. Più del sangue. C’era sangue ovunque». Quando la prima torre crolla per davvero, tutti iniziano a scappare, sopraffatti dall’onda di fumo e cenere: «Abbiamo iniziato a correre all’impazzata, ognuno in una direzione diversa, come topi. Sono arrivata con il fiato rotto fino a Brooklyn, grigia di polvere, i vestiti sporchi di un sangue che non era mio». Non funzionano né cellulari né telefoni fissi, e Martina riesce ad avvisare sua madre che sta bene solo in serata. «La mia scuola di lingua si è trasferita a Brooklyn solo qualche giorno dopo l’attentato, ma io non sarei stata in grado di restare in America. Ricordo di aver parlato con il console italiano: mi ha detto che New York da quel momento sarebbe stata la città più sicura del mondo, ma che se se fossi stata sua figlia mi avrebbe rimandato in Italia». Ricordare Fino a qualche anno fa Martina si chiudeva in casa ogni 11 settembre, senza rispondere al telefono, senza vedere nessuno. Era il suo modo di ricordare. Oggi se ripensa a quel giorno di 13 anni fa si commuove, ma è consapevole del fatto che le cose vanno avanti. «Sono tornata a New York per l’anniversario del 2002, con mia madre; per il decennale invece ha portato tutta la famiglia e mia figlia, che oggi ha otto anni». La piccola sa pochissimo di quello che è successo alla mamma: conosce qualche racconto, ha visto le prime pagine dei giornali dove ci sono le foto di sua madre. Quando sarà più grande capirà, anche se, come ammette Martina, solo chi ha vissuto quell’inferno ne può capire la portata. «Da lì è cambiato il mondo e non lo sapevamo». La sopravvissuta reggiana dopo l’11 settembre si sente anche un po’ americana: «I newyorkesi sono stati fantastici, mi hanno fatto sentire una di loro. Ne apprezzo la forza e la dignità, la stessa che hanno messo nella costruzione del Ground Zero». Martina Gasperotti pensa di non tornare più in America dopo l’ultimo viaggio che ha fatto nel 2011, ma lascia una flebile possibilità: «Mai dire mai». - See more at: http://www.rainews.it/…/Quella-mattina-ero-al-World-Trade-C…
Gli italiani sopravvissuti al crollo delle torri: "Quanti corpi cadevano in strada dal cielo"Il ricordo dei nostri connazionali scampati alla strage dell'11 settembre
Trentotto sono morti sotto le macerie nel tentativo di scappare. Altri sono sopravvissuti, ma ancora portano i segni di quello che è accaduto alle Torri Gemelle. Anche l'Italia ha pagato il suo tributo al terrorismo di matrice islamica che l'11 settembre 2001 ha colpito il cuore di New York, causando migliaia di vittime. A distanza di 14 anni quel dolore non si è placato e le immagini di quelle ore affollano gli incubi di chi è stato tra i testimoni oculari dell'orrore della jihad. Tra i connazionali che sono scampati all'attentato ci sono Gina Lippis, Lucio Caputo, Ruggero De Rossi e Francesco Ambruoso che hanno raccontato la loro storia nel 2011 nel documentario di History Channel. I quattro erano dentro le Twin Towers e dopo dieci anni dell'accaduto hanno parlato della loro esperienza.
Tutti hanno sentito il boato provocato dall'aereo che ha trafitto la prima torre e poi le fortissime vibrazioni che ha provocato l’impatto, simili a quelle causate da un terremoto. «Ho guardato fuori - ha spiegato Gina che si trovava a pochi metri dal punto in cui il mezzo si è schiantato - e veniva giù tanta di quella roba che non immaginate». La loro fortuna è stata quella di riuscire a scappare da quell'inferno di fuoco e polvere che invece ha sommerso amici, colleghi e conoscenti.
Quel giorno, a New York, c'era anche un'altra italiana sopravvissuta all'attentato. Vite che si ignorano e che si incrociano costrette a condividere l'inferno che tenta di inghiottirle. Martina Gasperotti l'anno scorso, in occasione del 13esimo anniversario della strage, ha raccontato la tragica esperienza di una giovane arrivata da poco a New York con l'intento di imparare l'inglese. Proprio quella mattina avrebbe dovuto iniziare i corsi al Worl Trade Center, ma qualcosa ha stravolto i suoi progetti. «Avevo dormito poco ed ero arrivata davanti il grattacielo con largo anticipo», si legge sul sito di Rai News a cui la donna, che vive a Reggio Emilia, ha affidato il suo racconto. Entrata nella Torre nord mentre parla con la mamma al telefono, si accorge che qualcosa non andava. La linea telefonica cade e da qual momento in poi inizia il suo dramma. «A un certo punto ho sentito un gran botto, la terra ha tremato. Ma non mi sono preoccupata più di tanto - dice nell’intervista - dal primo giorno i rumori di New York mi erano sembrati molto strani e avevo finito per non farci più caso. Non mi sono accorta subito di cosa fosse successo perché avevo preso un’uscita dalla quale non si vedeva nulla: il primo aereo, rimasto nella struttura, era invisibile per chi non guardava dalla giusta prospettiva. Ho alzato la testa anche io e mi ricordo di aver notato l’insolito cielo azzurro e migliaia di fogli bianchi che volavano ovunque». Poi Martina ricorda: «Ho visto il secondo aereo trapassare la torre sud: prima la sua ombra sugli altri grattacieli e poi lo schianto, talmente forte che ancora oggi sono sensibile ai forti rumori. Una delle sensazioni più vivide? Il calore dell’esplosione che mi arrivava da sotto i piedi. Non c’è un dettaglio che mi è rimasto particolarmente impresso, perché porterò sempre tutto con me. La polvere, le grida. La mia mente non lascerà mai andare certi ricordi, come le persone che si lasciavano cadere nel vuoto. Il rumore sordo dei corpi che cadevano a terra mi ha sconvolto. Più del sangue. C’era sangue ovunque». Poi la corsa verso la salvezza, in mezzo alla disperazione e ai corpi dilaniati. Una corsa folle fino a Brooklyn, dove finalmente ha respirato.
Intanto al Worl Trade Center si stava consumando una delle più grandi carneficine che la storia del mondo ricordi e altri italiani si sono svegliati nella Grande Mela inconsapevoli di quanto stava accadendo. Quella mattina a New York Sara Faillaci, una giornalista freelance, al momento dell'accaduto si trovava nella sua casa sulla Centodecima strada a ovest di Central Park. Anche lei, dopo dieci anni, ha voluto ricordare lo sgomento e la paura che ha provato con un articolo pubblicato su Vanity Fair. «Per anni, a ogni anniversario - scrive Sara - mi sono rifiutata di rivedere quelle immagini. Penso che guardarle in televisione, a Milano, seduta sul divano di casa dopo una giornata ordinaria di lavoro, ridurrebbe quel giorno, quell’evento così straordinario, a mero spettacolo, a finzione». E ancora: «E forse questo è anche uno dei motivi per cui non avevo mai scritto di quella giornata. Un altro è che la gente è abituata a ricevere su questo argomento materiale forte: fotografie, filmati e racconti di gente scampata alla catastrofe tra fumo o fiamme, di corpi umani spezzati nel volo mortale dalle finestre di grattacieli. E io invece quando penso all’11 settembre 2001 vedo solo volti: quelli delle migliaia di missing (dispersi) che tappezzavano i muri di New York nei giorni successivi agli attacchi, e quelli di coloro che sono rimasti a guardarli senza più Dio né certezze».
Il privilegio di essere lì, quel giorno
La sera del 10 settembre 2001 ero in cima alle Torri Gemelle. Ma a darmi la notizia, il giorno dopo, fu mia madre
Non so perché finora non mi è mai andato di scrivere di quel giorno. Naturalmente mi è capitato di parlarne: più o meno chiunque venga a sapere che l’11 settembre vivevo a New York mi fa quella domanda.
A volte non prende neanche forma la domanda, basta l’espressione colma di sorpresa mista ad aspettativa sul viso del mio interlocutore in attesa.
E io, che di solito non mi faccio pregare per raccontare, confesso di essermi sentita ogni volta braccata, messa all’angolo. Perché non si può non rispondere, perché è legittimo voler sapere, perché ritengo che faccia parte dei doveri di chi quel giorno ha avuto il privilegio di essere a New York, e di sopravvivere, dare una testimonianza.
Sì, ho scritto “privilegio” e penso davvero lo sia. Non solo per chi fa il mio mestiere - il sogno di ogni giornalista è quello di trovarsi al centro del luogo e dell’evento di cui parla tutto il mondo - ma per chiunque.
Con l’ovvio rispetto per chi quel giorno ha perso la vita o delle persone care - tantissime purtroppo, circa 2700 solo nelle due Torri - penso che vedere una città e tutti i suoi abitanti cambiare repentinamente sogni, desideri, paure, prospettive, umore, nello spazio di una notte sia una delle esperienze più forti che possa vivere l’essere umano.
Io, la sera del 10 settembre 2001, ero in cima alle Torri Gemelle.
Insieme a un gruppo di studenti della Columbia University partecipavo a uno degli eventi fuori campus organizzati dall’Università per dare il benvenuto alle matricole di quell’anno. Il programma prevedeva una visita guidata delle Torri seguita da una crociera notturna su un battello dove avremmo cenato con la vista delle World Trade Center illuminato. La serata era così mite e limpida e lo spettacolo mozzafiato, che mi pentii subito di aver lasciato a casa la telecamera. Poi, mi dissi: «Sono a New York da due mesi. Sono venuta qui per viverci forse per sempre, senz’altro per un tempo molto lungo, avrò mille altre occasioni di filmare le Torri Gemelle». Meno di dodici ore dopo non esistevano più.
La mattina dell’11 settembre, complice la notte di festa, dormii un po’ più del solito e alle nove, quando suonò il telefono di casa, per me era ancora una giornata normale. Dall’altro capo del filo c’era la voce di mia madre, dall’Italia, e mi resi subito conto che era agitata. Pensai a qualche problema familiare, la mia mente era ancora impegnata a visualizzare il suo volto, quando mi arrivarono all’orecchio le parole storpiate World Trade Center e poi aereo. Mia madre, da Rapallo, piccolo borgo marinaro in provincia di Genova, mi stava dicendo che un aereo si era schiantato contro le Torri Gemelle. Era un evento talmente assurdo che ci misi un po’ di tempo a elaborarlo. Mentre la tranquillizzavo, dicendole che ero a casa e stavo benissimo, con la mano istintivamente afferrai il telecomando e accesi la tv. L’immagine trasmessa dalla CNN era di una telecamera fissa. La silouhette grigia delle due torri nella luce mattutina di Manhattan e dal fianco di quella settentrionale una colonna di fumo antracite che si alzava in cielo. Sotto, un banner con la notizia dell’ultima ora: «Aereo schiantato contro il World Trade Center, possibile attacco terroristico». Un minuto dopo la commentatrice lanciava un urlo e l’immagine si modificava leggermente: ora il fumo usciva anche dall’altra torre, colpita da un secondo aereo leggermente più in basso.
Un’ora e mezzo dopo tutte le comunicazioni telefoniche con Manhattan si sarebbero interrotte in seguito al crollo di entrambe le torri. Se mia madre in quel momento non mi avesse chiamata (allertata da una vicina di casa che vive con la tv accesa 24 ore su 24, in fondo in Italia erano le tre del pomeriggio e Internet non era ancora alla sua portata) non avrei più potuto parlarle e lei avrebbe vissuto molte ore di angoscia senza notizie da me. E’ una cosa a cui penso spesso, soprattutto ora che sono madre anch’io, e ogni volta mi dico: «Quanto siamo state fortunate».
In realtà qualche cellulare ha continuato a funzionare a singhiozzo per un po’. Infatti verso le 11 il mio ha suonato. Un trillo anomalo e acuto che lì per lì ho ignorato – ero inchiodata davanti alle Cnn, ancora in pigiama, dalla prima telefonata – anche perché sconosciuto: mi ero decisa a comprare un telefonino americano solo il giorno prima e non l’avevo ancora mai sentito squillare.
L’altra strana coincidenza era che il numero non lo aveva nessuno.
O quasi. Visto che o scopo dell’acquisto era poter essere rintracciabile per lavoro dai giornali italiani per cui lavoravo come free-lance, avevo mandato un’unica mail con il nuovo numero al collega Francesco Specchia, che curava la pagina di Cultura e Spettacolo del quotidiano Libero, che mi aveva chiesto di seguire alcuni eventi in quei giorni a New York. Infatti al telefono era lui. Visibilmente concitato. Mi chiese un pezzo per il quotidiano. Mi vestii e uscii.
All’epoca abitavo sulla Centodecima Strada a Ovest di Central Park: due blocks (strade) più su dell’Università di Columbia, oltre cento più a nord del World Trade Center che si trovava nel Lower Manhattan.
La metropolitana ovviamente non funzionava. Seppi in seguito che le fermate vicino al Wtc non esistevano più, la strada era crollata seppellendo gallerie, binari, negozi. Mi incamminai verso sud.
Scelsi la Broadway, una delle arterie principali. C’era un silenzio strano. Strano perché in realtà in strada c’era un sacco di gente. Ma nessuno parlava. Molti erano seduti sulle soglie dei negozi, rannicchiati, alcuni con le mani nei capelli, inermi; altri cercavano freneticamente di telefonare, inutilmente. La maggior parte camminava, una folla di marciatori che si ingrossava mano a mano che io scendevo e che andavano tutti nella direzione opposta alla mia, a nord. Scappavano dall’inferno di fuoco e fumo che in poche ore era diventato il sud di Manhattan: uomini vestiti lavoro rimasti in maniche di camicia, donne con i tacchi alti in mano, alcuni di loro ricoperti di polvere. Sono immagini che avrete visto milioni di volte. Solo che nelle foto o in nei programmi televisivi quel silenzio, quel non rumore, non si avverte. E per me è stata la cosa più forte e traumatica di quel giorno, quella che non riesco a dimenticare.
All’altezza di Washington Square trovai la strada sbarrata da una fila di carriarmati in assetto da combattimento che attraversava Manhattan in orizzontale. Fermavano chiunque volesse scendere più giù.
Era un’immagine così netta e reale da riportarmi alla razionalità: come facevano a essere arrivati lì, su un’isola, così tanti in così poco tempo? Estrassi dalla tasca un lasciapassare per giornalisti che la Polizia di New York mi aveva rilasciato appena una settimana prima; mi fecero cenno che potevo continuare. E così, ancora incredula che un pezzo di carta plastificato avesse il potere di aprirmi un varco in quella barriera, mi trovai di colpo dall’altra parte.
Manhattan era davvero tagliata in due. Se fino a quel momento la città aveva mantenuto sembianze normali - a parte l’odore di bruciato che più si scendeva più diventava forte – compreso il cielo di un azzurro terso, oltre Washington Square il sole era completamente offuscato dal fumo e si procedeva a stento in una città fantasma dove non sembrava esserci più anima viva. Anche le strade erano irriconoscibili: dal giorno prima in cui le avevo viste lucide, piene di negozi, di gente e di vita, sembravano passati secoli. Un pesante strato di cenere ricopriva tutto, manto stradale, marciapiedi, auto. Nell’aria volavano migliaia di fogli di carta, il contenuto dei cassetti e degli armadi di decine di uffici polverizzati. Ne afferrai qualcuno con le mani. Ma la carta non brucia? E come fa a sminuzzarsi in pezzi così piccoli? L’impressione era che fosse un effetto speciale esagerato di un film, di quelli partoriti da uno sceneggiatore troppo fantasioso.
A Chinatown, quartiere cinese a sud di Little Italy che trovai deserta, decine di cinesi erano riuniti in una piazza intenti a parlare e a discutere come nulla fosse dentro una nube nera di fuliggine. O forse parlavano proprio di quella. Capirli era impossibile e comunque nessuno di loro sembrò fare caso a me. Quando finalmente raggiunsi Wall Street, il quartiere finanziario dove sorgevano le torri, erano già le tre del pomeriggio: la maggior parte dei negozi era aperta, nel senso che le porte erano spalancate e le luci accese. Mi colpì un bar dove vidi le macchine per fare le bevande calde ancora illuminate e alcuni begel morsicati abbandonati sui tavoli da qualcuno che di prima mattina aveva avuto fretta di scappare.
Intanto l’aria era diventata sempre più densa di fumo: una camionetta di soldati comparsa dietro un angolo mi lanciò una mascherina e una bottiglietta d’acqua e ripartì a tutto gas. Ero sola e con la sensazione strisciante di trovarmi lì senza averne il diritto. Contai mentalmente ancora quanti metri dovevano separarmi dal sito delle torri ma due strade più a sud un altro gruppo di militari mi sbarrò la strada. «Qui non si passa. Stanno crollando interi palazzi».
Fino a quel momento avevo camminato come un automa verso sud, senza una reale meta: di fatto, il posto che dovevo raggiungere non esisteva più. Per tutte quelle ore non mi ero chiesta che cosa pensavo di trovare e di vedere; non puoi sapere che cosa resta al suolo quando due grattacieli di cento piani l’uno crollano su se stessi, e la verità è che non riesci nemmeno immaginarlo. Solo qualche giorno dopo potei arrivare in quell’area che avevano chiamato Ground Zero: anche se era giorno, sembrava notte a causa del fumo che ancora riempiva l’aria. C’erano cumuli di terra e detriti illuminati alti come palazzi e gru e scavatrici che lavoravano senza sosta. E tanti omini piccoli con il casco in testa che si affannavano intorno. Si cercavano corpi ma anche superstiti; qualcuno fu miracolosamente ritrovato.
Alle cinque del pomeriggio dell’11 settembre entrai nell’appartamento di Midtown di una mia amica. Mi chiusi in una stanza e scrissi l’articolo, senza alcuna speranza in realtà di riuscire a mandarlo: la posta elettronica non funzionava e il collegamento Internet era saltato da ore. Ci riuscii dopo circa mezz’ora, al secondo tentativo. Mi sembrò un miracolo. O un segno del destino.
Quella sera a Manhattan si organizzarono veglie in ogni zona della città. Molte erano presso le caserme dei pompieri, di gran lunga la categoria di soccorritori più colpiti mentre cercavano di portare in salvo le persone intrappolate nelle torri. Partecipai a una nell’Upper West Side e dopo, con alcuni amici, entrai in un pub per bere qualcosa. C’era un discreto numero di avventori, tutti inebetiti e profondamente sotto shock. Restammo tutti almeno per un’ora a fissare una tv che trasmetteva a ripetizione le stesse immagini: il primo aereo che colpisce la torre Nord alle 8.46, circa quindici minuti dopo il secondo che sorprende tutti e va a conficcarsi nella torre Sud; la sequenza del crollo della torre Sud alle 9.59 e poi quello della Torre Nord alle 10.28. Un’ora e mezza troppo lunga da vedere su uno schermo e insopportabilmente corta da vivere per chi era dentro.
Per anni, a ogni anniversario, mi sono rifiutata di rivedere quelle immagini. Penso che guardarle in televisione, a Milano, seduta sul divano di casa dopo una giornata ordinaria di lavoro, ridurrebbe quel giorno, quell’evento così straordinario, a mero spettacolo, a finzione.
E forse questo è anche uno dei motivi per cui non avevo mai scritto di quella giornata. Un altro è che la gente è abituata a ricevere su questo argomento materiale forte: fotografie, filmati e racconti di gente scampata alla catastrofe tra fumo o fiamme, di corpi umani spezzati nel volo mortale dalle finestre di grattacieli. E io invece quando penso all’11 settembre 2001 vedo solo volti: quelli delle migliaia di “missing” (dispersi) che tappezzavano i muri di New York nei giorni successivi agli attacchi, e quelli di coloro che sono rimasti a guardarli senza più Dio né certezze.
Dopo dieci anni forse è giunto anche per me il momento di liberarmi di un tabù. E poi la prossima volta che qualcuno mi chiederà di raccontare quel giorno potrò sempre rispondere: «Leggilo su Vanity Fair». E smettere di sentire quel dolore che non fa rumore.

Da Reggio Emilia a New York "Quella mattina ero al World Trade Center": Martina Gasperotti racconta il suo 11 settembre Alle 8.46 dell'11 settembre 2001 Martina Gasperotti, igienista dentale di Reggio Emilia, era nella Torre Nord. Era il primo giorno del suo corso di inglese. Arrivata in anticipo, per ingannare l'attesa aveva deciso di dare un'occhiata al Windows of the World, il locale dove aveva deciso di passare la serata. Non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto
Quando le chiediamo cosa ricorda di quel giorno, Martina Gasperotti sorride. Perchè lei, quel giorno, se lo ricorda per filo e per segno. Aveva preso sei mesi di aspettativa dalla sua attività di igienista dentale per andare in America a studiare l’inglese. Il suo corso a New York sarebbe iniziato proprio l’11 settembre per finire a Natale, ma non è andata oltre il test d’ingresso. "La lingua alla fine non l’ho mai imparata"- racconta - "Questo è uno dei miei più grandi rimpianti". Era arrivata da meno di tre giorni Martina, ancora un po’ provata dal fuso orario e dalle grandi novità di una città come quella. "Avevo dormito poco ed ero arrivata davanti il grattacielo con largo anticipo". A pochi passi dal World Trade Center, decide di andare a dare un’occhiata agli orari del Windows of the World, il complesso di ristoranti situato al 107esimo piano della Torre Nord. Ha intenzione di passarci la serata: il locale che domina la città è una tappa obbligata per turisti e visitatori. Il primo aereo Martina è nella torre, parla al telefono con la madre e le racconta gli ultimi aggiornamenti del viaggio, poi cade la linea. «Ad un certo punto ho sentito un gran botto, la terra ha tremato. Ma non mi sono preoccupata più di tanto- spiega- dal primo giorno i rumori di New York mi erano sembrati molto strani e avevo finito per non farci più caso». In molti cominciano ad uscire, Martina è con loro. «Non mi sono accorta subito di cosa fosse successo perché avevo preso un’uscita dalla quale non si vedeva nulla: il primo aereo, rimasto nella struttura, era invisibile per chi non guardava dalla giusta prospettiva». Ma poi comincia a camminare e a guardare i volti delle persone: impietriti, qualcuno piange, tutti sono con il naso all’insù. «Ho alzato la testa anche io- dice Martina- e mi ricordo di aver notato l’insolito cielo azzurro e migliaia di fogli bianchi che volavano ovunque». In un attimo arrivano anche i mezzi di soccorso. Il crollo «Ho visto il secondo aereo trapassare la torre sud: prima la sua ombra sugli altri grattacieli e poi lo schianto, talmente forte che ancora oggi sono sensibile ai forti rumori. Una delle sensazioni più vivide? Il calore dell’esplosione che mi arrivava da sotto i piedi». Martina è sola, e prova a chiedere con il suo inglese stentato se le torri crolleranno, ma tutte le persone che sono intorno a lei la rassicurano: le torri gemelle non crolleranno mai. Poi invece comincia l’inferno, quell’inferno che chi ha vissuto l’11 settembre in tv non potrà mai veramente comprendere: «Non c’è un dettaglio che mi è rimasto particolarmente impresso- confida Martina- perché porterò sempre tutto con me. La polvere, le grida. La mia mente non lascerà mai andare certi ricordi, come le persone che si lasciavano cadere nel vuoto. Il rumore sordo dei corpi che cadevano a terra mi ha sconvolto. Più del sangue. C’era sangue ovunque». Quando la prima torre crolla per davvero, tutti iniziano a scappare, sopraffatti dall’onda di fumo e cenere: «Abbiamo iniziato a correre all’impazzata, ognuno in una direzione diversa, come topi. Sono arrivata con il fiato rotto fino a Brooklyn, grigia di polvere, i vestiti sporchi di un sangue che non era mio». Non funzionano né cellulari né telefoni fissi, e Martina riesce ad avvisare sua madre che sta bene solo in serata. «La mia scuola di lingua si è trasferita a Brooklyn solo qualche giorno dopo l’attentato, ma io non sarei stata in grado di restare in America. Ricordo di aver parlato con il console italiano: mi ha detto che New York da quel momento sarebbe stata la città più sicura del mondo, ma che se se fossi stata sua figlia mi avrebbe rimandato in Italia». Ricordare Fino a qualche anno fa Martina si chiudeva in casa ogni 11 settembre, senza rispondere al telefono, senza vedere nessuno. Era il suo modo di ricordare. Oggi se ripensa a quel giorno di 13 anni fa si commuove, ma è consapevole del fatto che le cose vanno avanti. «Sono tornata a New York per l’anniversario del 2002, con mia madre; per il decennale invece ha portato tutta la famiglia e mia figlia, che oggi ha otto anni». La piccola sa pochissimo di quello che è successo alla mamma: conosce qualche racconto, ha visto le prime pagine dei giornali dove ci sono le foto di sua madre. Quando sarà più grande capirà, anche se, come ammette Martina, solo chi ha vissuto quell’inferno ne può capire la portata. «Da lì è cambiato il mondo e non lo sapevamo». La sopravvissuta reggiana dopo l’11 settembre si sente anche un po’ americana: «I newyorkesi sono stati fantastici, mi hanno fatto sentire una di loro. Ne apprezzo la forza e la dignità, la stessa che hanno messo nella costruzione del Ground Zero». Martina Gasperotti pensa di non tornare più in America dopo l’ultimo viaggio che ha fatto nel 2011, ma lascia una flebile
Da
Reggio Emilia a New York "Quella mattina ero al World Trade Center":
Martina Gasperotti racconta il suo 11 settembre Alle 8.46 dell'11
settembre 2001 Martina Gasperotti, igienista dentale di Reggio Emilia,
era nella Torre Nord. Era il primo giorno del suo corso di inglese.
Arrivata in anticipo, per ingannare l'attesa aveva deciso di dare
un'occhiata al Windows of the World, il locale dove aveva deciso di
passare la serata. Non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto
Quando le chiediamo cosa ricorda di quel giorno, Martina Gasperotti sorride. Perchè lei, quel giorno, se lo ricorda per filo e per segno. Aveva preso sei mesi di aspettativa dalla sua attività di igienista dentale per andare in America a studiare l’inglese. Il suo corso a New York sarebbe iniziato proprio l’11 settembre per finire a Natale, ma non è andata oltre il test d’ingresso. "La lingua alla fine non l’ho mai imparata"- racconta - "Questo è uno dei miei più grandi rimpianti". Era arrivata da meno di tre giorni Martina, ancora un po’ provata dal fuso orario e dalle grandi novità di una città come quella. "Avevo dormito poco ed ero arrivata davanti il grattacielo con largo anticipo". A pochi passi dal World Trade Center, decide di andare a dare un’occhiata agli orari del Windows of the World, il complesso di ristoranti situato al 107esimo piano della Torre Nord. Ha intenzione di passarci la serata: il locale che domina la città è una tappa obbligata per turisti e visitatori. Il primo aereo Martina è nella torre, parla al telefono con la madre e le racconta gli ultimi aggiornamenti del viaggio, poi cade la linea. «Ad un certo punto ho sentito un gran botto, la terra ha tremato. Ma non mi sono preoccupata più di tanto- spiega- dal primo giorno i rumori di New York mi erano sembrati molto strani e avevo finito per non farci più caso». In molti cominciano ad uscire, Martina è con loro. «Non mi sono accorta subito di cosa fosse successo perché avevo preso un’uscita dalla quale non si vedeva nulla: il primo aereo, rimasto nella struttura, era invisibile per chi non guardava dalla giusta prospettiva». Ma poi comincia a camminare e a guardare i volti delle persone: impietriti, qualcuno piange, tutti sono con il naso all’insù. «Ho alzato la testa anche io- dice Martina- e mi ricordo di aver notato l’insolito cielo azzurro e migliaia di fogli bianchi che volavano ovunque». In un attimo arrivano anche i mezzi di soccorso. Il crollo «Ho visto il secondo aereo trapassare la torre sud: prima la sua ombra sugli altri grattacieli e poi lo schianto, talmente forte che ancora oggi sono sensibile ai forti rumori. Una delle sensazioni più vivide? Il calore dell’esplosione che mi arrivava da sotto i piedi». Martina è sola, e prova a chiedere con il suo inglese stentato se le torri crolleranno, ma tutte le persone che sono intorno a lei la rassicurano: le torri gemelle non crolleranno mai. Poi invece comincia l’inferno, quell’inferno che chi ha vissuto l’11 settembre in tv non potrà mai veramente comprendere: «Non c’è un dettaglio che mi è rimasto particolarmente impresso- confida Martina- perché porterò sempre tutto con me. La polvere, le grida. La mia mente non lascerà mai andare certi ricordi, come le persone che si lasciavano cadere nel vuoto. Il rumore sordo dei corpi che cadevano a terra mi ha sconvolto. Più del sangue. C’era sangue ovunque». Quando la prima torre crolla per davvero, tutti iniziano a scappare, sopraffatti dall’onda di fumo e cenere: «Abbiamo iniziato a correre all’impazzata, ognuno in una direzione diversa, come topi. Sono arrivata con il fiato rotto fino a Brooklyn, grigia di polvere, i vestiti sporchi di un sangue che non era mio». Non funzionano né cellulari né telefoni fissi, e Martina riesce ad avvisare sua madre che sta bene solo in serata. «La mia scuola di lingua si è trasferita a Brooklyn solo qualche giorno dopo l’attentato, ma io non sarei stata in grado di restare in America. Ricordo di aver parlato con il console italiano: mi ha detto che New York da quel momento sarebbe stata la città più sicura del mondo, ma che se se fossi stata sua figlia mi avrebbe rimandato in Italia». Ricordare Fino a qualche anno fa Martina si chiudeva in casa ogni 11 settembre, senza rispondere al telefono, senza vedere nessuno. Era il suo modo di ricordare. Oggi se ripensa a quel giorno di 13 anni fa si commuove, ma è consapevole del fatto che le cose vanno avanti. «Sono tornata a New York per l’anniversario del 2002, con mia madre; per il decennale invece ha portato tutta la famiglia e mia figlia, che oggi ha otto anni». La piccola sa pochissimo di quello che è successo alla mamma: conosce qualche racconto, ha visto le prime pagine dei giornali dove ci sono le foto di sua madre. Quando sarà più grande capirà, anche se, come ammette Martina, solo chi ha vissuto quell’inferno ne può capire la portata. «Da lì è cambiato il mondo e non lo sapevamo». La sopravvissuta reggiana dopo l’11 settembre si sente anche un po’ americana: «I newyorkesi sono stati fantastici, mi hanno fatto sentire una di loro. Ne apprezzo la forza e la dignità, la stessa che hanno messo nella costruzione del Ground Zero». Martina Gasperotti pensa di non tornare più in America dopo l’ultimo viaggio che ha fatto nel 2011, ma lascia una flebile possibilità: «Mai dire mai». - See more at: http://www.rainews.it/…/Quella-mattina-ero-al-World-Trade-C…
Quando le chiediamo cosa ricorda di quel giorno, Martina Gasperotti sorride. Perchè lei, quel giorno, se lo ricorda per filo e per segno. Aveva preso sei mesi di aspettativa dalla sua attività di igienista dentale per andare in America a studiare l’inglese. Il suo corso a New York sarebbe iniziato proprio l’11 settembre per finire a Natale, ma non è andata oltre il test d’ingresso. "La lingua alla fine non l’ho mai imparata"- racconta - "Questo è uno dei miei più grandi rimpianti". Era arrivata da meno di tre giorni Martina, ancora un po’ provata dal fuso orario e dalle grandi novità di una città come quella. "Avevo dormito poco ed ero arrivata davanti il grattacielo con largo anticipo". A pochi passi dal World Trade Center, decide di andare a dare un’occhiata agli orari del Windows of the World, il complesso di ristoranti situato al 107esimo piano della Torre Nord. Ha intenzione di passarci la serata: il locale che domina la città è una tappa obbligata per turisti e visitatori. Il primo aereo Martina è nella torre, parla al telefono con la madre e le racconta gli ultimi aggiornamenti del viaggio, poi cade la linea. «Ad un certo punto ho sentito un gran botto, la terra ha tremato. Ma non mi sono preoccupata più di tanto- spiega- dal primo giorno i rumori di New York mi erano sembrati molto strani e avevo finito per non farci più caso». In molti cominciano ad uscire, Martina è con loro. «Non mi sono accorta subito di cosa fosse successo perché avevo preso un’uscita dalla quale non si vedeva nulla: il primo aereo, rimasto nella struttura, era invisibile per chi non guardava dalla giusta prospettiva». Ma poi comincia a camminare e a guardare i volti delle persone: impietriti, qualcuno piange, tutti sono con il naso all’insù. «Ho alzato la testa anche io- dice Martina- e mi ricordo di aver notato l’insolito cielo azzurro e migliaia di fogli bianchi che volavano ovunque». In un attimo arrivano anche i mezzi di soccorso. Il crollo «Ho visto il secondo aereo trapassare la torre sud: prima la sua ombra sugli altri grattacieli e poi lo schianto, talmente forte che ancora oggi sono sensibile ai forti rumori. Una delle sensazioni più vivide? Il calore dell’esplosione che mi arrivava da sotto i piedi». Martina è sola, e prova a chiedere con il suo inglese stentato se le torri crolleranno, ma tutte le persone che sono intorno a lei la rassicurano: le torri gemelle non crolleranno mai. Poi invece comincia l’inferno, quell’inferno che chi ha vissuto l’11 settembre in tv non potrà mai veramente comprendere: «Non c’è un dettaglio che mi è rimasto particolarmente impresso- confida Martina- perché porterò sempre tutto con me. La polvere, le grida. La mia mente non lascerà mai andare certi ricordi, come le persone che si lasciavano cadere nel vuoto. Il rumore sordo dei corpi che cadevano a terra mi ha sconvolto. Più del sangue. C’era sangue ovunque». Quando la prima torre crolla per davvero, tutti iniziano a scappare, sopraffatti dall’onda di fumo e cenere: «Abbiamo iniziato a correre all’impazzata, ognuno in una direzione diversa, come topi. Sono arrivata con il fiato rotto fino a Brooklyn, grigia di polvere, i vestiti sporchi di un sangue che non era mio». Non funzionano né cellulari né telefoni fissi, e Martina riesce ad avvisare sua madre che sta bene solo in serata. «La mia scuola di lingua si è trasferita a Brooklyn solo qualche giorno dopo l’attentato, ma io non sarei stata in grado di restare in America. Ricordo di aver parlato con il console italiano: mi ha detto che New York da quel momento sarebbe stata la città più sicura del mondo, ma che se se fossi stata sua figlia mi avrebbe rimandato in Italia». Ricordare Fino a qualche anno fa Martina si chiudeva in casa ogni 11 settembre, senza rispondere al telefono, senza vedere nessuno. Era il suo modo di ricordare. Oggi se ripensa a quel giorno di 13 anni fa si commuove, ma è consapevole del fatto che le cose vanno avanti. «Sono tornata a New York per l’anniversario del 2002, con mia madre; per il decennale invece ha portato tutta la famiglia e mia figlia, che oggi ha otto anni». La piccola sa pochissimo di quello che è successo alla mamma: conosce qualche racconto, ha visto le prime pagine dei giornali dove ci sono le foto di sua madre. Quando sarà più grande capirà, anche se, come ammette Martina, solo chi ha vissuto quell’inferno ne può capire la portata. «Da lì è cambiato il mondo e non lo sapevamo». La sopravvissuta reggiana dopo l’11 settembre si sente anche un po’ americana: «I newyorkesi sono stati fantastici, mi hanno fatto sentire una di loro. Ne apprezzo la forza e la dignità, la stessa che hanno messo nella costruzione del Ground Zero». Martina Gasperotti pensa di non tornare più in America dopo l’ultimo viaggio che ha fatto nel 2011, ma lascia una flebile possibilità: «Mai dire mai». - See more at: http://www.rainews.it/…/Quella-mattina-ero-al-World-Trade-C…

Secondo
la versione ufficiale, i crolli delle Torri Gemelle sono stati crolli
gravitazionali, ossia crolli avvenuti grazie alla sola forza di gravità e
al peso dei piani in caduta, senza esplosivi o sostanze incendiarie che
li "aiutassero" rimuovendo le strutture portanti man mano che
l'edificio crollava.
Il problema, che è anche il motivo per cui tanti ingegneri, scienziati e fisici contestano questa versione dei fatti, è che le Torri sono crollate con modalità fisicamente impossibili da ottenere con un crollo gravitazionale.
Più precisamente, la simmetria, la rapidità e la totalità di quei crolli possono essere ottenute solo grazie all'uso di esplosivi o di sostanze incendiarie che accelerino, rendano uniforme e facciano continuare il crollo fino al suolo (anche dopo che l'energia cinetica dei piani in caduta si è esaurita), perché alcune leggi fisiche impediscono che si possano ottenere crolli con quelle caratteristiche grazie alla sola gravità.
Vediamo ora le esatte leggi fisiche che la versione ufficiale vìola e le relative analisi matematiche e fisiche che lo dimostrano (con tanto di calcoli):
Il Secondo Principio della Termodinamica dimostra che crolli con quella simmetria non avrebbero potuto essere innescati da incendi asimmetrici e non avrebbero potuto poi essere portati avanti dalla sola gravità, e prova che una precisione simile si può ottenere solo artificialmente.
La formula per calcolare la caduta di un grave nel vuoto e quella per calcolare la resistenza aerodinamica dimostrano che crolli così rapidi ("essenzialmente in caduta libera", come ha detto il rapporto del NIST) non avrebbero mai potuto verificarsi grazie alla sola gravità. Dei crolli gravitazionali avrebbero impiegato circa 98 secondi per sconfiggere la resistenza offerta da ogni piano e quella dell'aria e arrivare fino a terra, e in questa analisi si dimostra che perfino togliendo dall'equazione la resistenza dell'aria il tempo minimo per un crollo gravitazionale sarebbe stato di 30,6 secondi. Viene anche dimostrato che l'unico modo per far crollare le Torri Gemelle rapidamente come hanno fatto sarebbe stato far cedere i piani sottostanti una frazione di secondo PRIMA che i piani superiori potessero schiantarsi su di essi. Cosa ovviamente impossibile in un crollo gravitazionale e ottenibile solo tramite esplosivi o sostanze incendiarie pre-posizionate.
La formula per calcolare il Trasferimento della Quantità di Moto dimostra che crolli così totali non avrebbero potuto verificarsi senza l'aiuto di esplosivi, perché la gravità e il peso dei piani in caduta da soli non potevano generare abbastanza energia cinetica per distruggere l'intero edificio fino alle fondamenta com'è avvenuto. Senza "aiuti" artificiali, il crollo si sarebbe fermato dopo pochi istanti, anziché continuare fino a terra come ha fatto.
La formula per calcolare la Conservazione del Momento conferma che dei crolli gravitazionali non avrebbero mai potuto essere così rapidi, perché se due masse identiche collidono e restano unite (come avrebbe fatto ogni piano delle Torri con quello sottostante, secondo la versione ufficiale), la velocità a cui viaggeranno sarà la metà di quella a cui viaggiava la massa originaria. Questo perché il piano sottostante offre inevitabilmente una certa resistenza e rallenta la caduta di quello soprastante (a meno che non venga fatto cedere con esplosivi prima che quello soprastante lo raggiunga: solo ed esclusivamente in quel caso non offre alcuna resistenza e non rallenta il crollo).
La formula per calcolare la Conservazione dell'Energia dimostra che, se anche nei crolli ci fosse stata abbastanza energia cinetica per far cedere tutti i piani fino alle fondamenta (e come abbiamo visto non c'era), in ogni caso non avrebbero potuto verificarsi sia il cedimento che la polverizzazione dei piani, perché quell'energia può essere utilizzata solo una volta (anche in questo caso, l'unico modo per ottenere entrambi i fenomeni contemporaneamente sarebbe stato l'impiego di esplosivi o sostanze incendiarie).
Il problema, che è anche il motivo per cui tanti ingegneri, scienziati e fisici contestano questa versione dei fatti, è che le Torri sono crollate con modalità fisicamente impossibili da ottenere con un crollo gravitazionale.
Più precisamente, la simmetria, la rapidità e la totalità di quei crolli possono essere ottenute solo grazie all'uso di esplosivi o di sostanze incendiarie che accelerino, rendano uniforme e facciano continuare il crollo fino al suolo (anche dopo che l'energia cinetica dei piani in caduta si è esaurita), perché alcune leggi fisiche impediscono che si possano ottenere crolli con quelle caratteristiche grazie alla sola gravità.
Vediamo ora le esatte leggi fisiche che la versione ufficiale vìola e le relative analisi matematiche e fisiche che lo dimostrano (con tanto di calcoli):
Il Secondo Principio della Termodinamica dimostra che crolli con quella simmetria non avrebbero potuto essere innescati da incendi asimmetrici e non avrebbero potuto poi essere portati avanti dalla sola gravità, e prova che una precisione simile si può ottenere solo artificialmente.
La formula per calcolare la caduta di un grave nel vuoto e quella per calcolare la resistenza aerodinamica dimostrano che crolli così rapidi ("essenzialmente in caduta libera", come ha detto il rapporto del NIST) non avrebbero mai potuto verificarsi grazie alla sola gravità. Dei crolli gravitazionali avrebbero impiegato circa 98 secondi per sconfiggere la resistenza offerta da ogni piano e quella dell'aria e arrivare fino a terra, e in questa analisi si dimostra che perfino togliendo dall'equazione la resistenza dell'aria il tempo minimo per un crollo gravitazionale sarebbe stato di 30,6 secondi. Viene anche dimostrato che l'unico modo per far crollare le Torri Gemelle rapidamente come hanno fatto sarebbe stato far cedere i piani sottostanti una frazione di secondo PRIMA che i piani superiori potessero schiantarsi su di essi. Cosa ovviamente impossibile in un crollo gravitazionale e ottenibile solo tramite esplosivi o sostanze incendiarie pre-posizionate.
La formula per calcolare il Trasferimento della Quantità di Moto dimostra che crolli così totali non avrebbero potuto verificarsi senza l'aiuto di esplosivi, perché la gravità e il peso dei piani in caduta da soli non potevano generare abbastanza energia cinetica per distruggere l'intero edificio fino alle fondamenta com'è avvenuto. Senza "aiuti" artificiali, il crollo si sarebbe fermato dopo pochi istanti, anziché continuare fino a terra come ha fatto.
La formula per calcolare la Conservazione del Momento conferma che dei crolli gravitazionali non avrebbero mai potuto essere così rapidi, perché se due masse identiche collidono e restano unite (come avrebbe fatto ogni piano delle Torri con quello sottostante, secondo la versione ufficiale), la velocità a cui viaggeranno sarà la metà di quella a cui viaggiava la massa originaria. Questo perché il piano sottostante offre inevitabilmente una certa resistenza e rallenta la caduta di quello soprastante (a meno che non venga fatto cedere con esplosivi prima che quello soprastante lo raggiunga: solo ed esclusivamente in quel caso non offre alcuna resistenza e non rallenta il crollo).
La formula per calcolare la Conservazione dell'Energia dimostra che, se anche nei crolli ci fosse stata abbastanza energia cinetica per far cedere tutti i piani fino alle fondamenta (e come abbiamo visto non c'era), in ogni caso non avrebbero potuto verificarsi sia il cedimento che la polverizzazione dei piani, perché quell'energia può essere utilizzata solo una volta (anche in questo caso, l'unico modo per ottenere entrambi i fenomeni contemporaneamente sarebbe stato l'impiego di esplosivi o sostanze incendiarie).
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