Sono le 15.30 del 26 febbraio 2011 quando il modellino di un aeroplano precipita a un metro dal corpo di Yara Gambirasio, nel campo di via Bedeschi a Chignolo d'Isola. La bambina era scomparsa da Brembate Sopra tre mesi prima. Il ritrovamento del tutto casuale mette fine alla speranza che la tredicenne sia ancora viva, ma è il punto di partenza delle indagini per scoprire l'assassino. Domani sarà trascorso un anno, ma l'inchiesta è ancora un groviglio di prelievi di dna (sono 14.000), interrogatori, intuizioni e abbagli. «È come giocare la schedina», confida un investigatore, che però non perde la speranza di scoprire il colpevole: «Potrebbe capitare oggi, se solo trovassimo il dna che coincide con quello isolato sugli slip e sui legging di Yara, quello cioè del presunto assassino». Questo omicidio entrato nelle abitazioni di tutti attraverso il viso pulito di Yara, tutta casa, scuola e ginnastica artistica, nasconde almeno quattro misteri.
Perché proprio lei? Il 26 novembre del 2010 non deve allenarsi, ma alle 17.30 va nella palestra di via Locatelli a portare uno stereo alla sua allenatrice. Sono 700 metri da casa. Si ferma a guardare le prove delle compagne di squadra e se ne va alle 18.38, quando la incrocia il papà di una sua amica. Poi sparisce. «Aveva un appuntamento con qualcuno?», si sono chiesti gli investigatori. Ma la tredicenne è rimasta ad assistere agli allenamenti. Se avesse voluto vedere un fidanzato segreto, una volta consegnato lo stereo lo avrebbe incontrato in un luogo appartato. Inoltre non ha un profilo facebook e i 10 numeri sul suo cellulare appartengono ai familiari, alle compagne di scuola e alle amiche. Allora chi l'ha rapita e uccisa? Tutte le risposte sono possibili ed è proprio questo il dramma delle indagini. Può averla presa uno sconosciuto, per caso, a scopo di libidine, così come lei può aver accettato il passaggio da chi conosceva. Un ragazzo o un adulto - nemmeno questo si sa - che la colpisce alla testa e al volto con un corpo contundente, la ferisce con un taglierino alla gola, ai polsi, nella zona lombare della schiena e su una coscia, poi la lascia in fin di vita nel campo. Ma l'assassino rischia. La zona è sì isolata (ci sono solo capannoni), ma è frequentata da prostitute e lì vicino c'è una discoteca.
Qualcuno avrebbe potuto trovare Yara ancora viva e, forse, salvarla. Per gli inquirenti, chi ha ucciso non è quindi un criminale «di professione». Ma nemmeno uno sprovveduto. Si prende il cellulare di Yara, ma lascia la batteria e la sim card che, se tenuti, potrebbero condurre a lui. Chi conosce questi dettagli tecnologici? Forse un giovane. Il terzo punto che non si spiega è il cantiere. I cani molecolari portano a quello di Mapello, dove ora sorge un centro commerciale. Nei polmoni di Yara c'è polvere di cemento, le ferite sono state inferte con un taglierino da artigiano e sui suoi vestiti ci sono tracce di juta, usata anche nell'edilizia. La pista viene battuta, gli operai controllati (tranne una decina tornati nel nord Africa e nell'est Europa), ma non dà risultati. Poi c'è il Dna, il pilastro dell'inchiesta. Di solito è la prova regina che incastra l'assassino, al termine di indagini su piste precise. In questo caso, invece, è il punto di partenza, perché tutte le ipotesi vengono vagliate. «Come giocare una schedina», per citare l'investigatore.
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