Il reato di tortura, pensato per proteggere i cittadini da chi indossando una divisa può usare la forza – e proprio per questo inviso alla maggioranza di governo – nella sua prima applicazione ha portato alla condanna non di poliziotti, ma di tre richiedenti asilo, arrivati a Lampedusa a giugno 2019 sulla nave Sea Watch di Carola Rackete. La sentenza di primo grado del tribunale di Messina ha certificato le torture sistematiche nei centri di detenzione per migranti in Libia, specificamente nella prigione di Zawiya Al Nasr. Per questo la corte penale internazionale si è congratulata con il governo italiano e Amnesty Italia ha parlato di «sentenza storica e innovativa».

Ma un esame approfondito degli atti rivela una realtà paradossale: la responsabilità per le torture nel carcere di Zawiya, sotto il controllo del ministero dell’interno libico e gestito da miliziani alleati del governo italiano nel contenimento dei migranti, ricade su tre individui con ruoli del tutto marginali e transitori nell’amministrazione del carcere. Nelle testimonianze delle vittime abbondano i dettagli sulle sevizie inferte dai vertici della prigione, ma appare esiguo e impreciso il racconto di violenze commesse dai tre imputati. Lo ha riconosciuto, in parte, la Corte d’Appello, abbassando le pene inflitte in primo grado da 20 a 12 anni di reclusione perché «gli imputati erano pur sempre dei migranti che aspiravano a raggiungere le coste italiane», e si trovavano «in uno stato di sudditanza psicologica rispetto all’apparato posto in piedi dai veri trafficanti che, purtroppo, rimangono sempre al riparo dall’azione punitiva». Torturatori, ma con le attenuanti generiche.

La capitana Carola Rackete durante quel viaggio
La capitana Carola Rackete durante quel viaggio

L’IDEA DI USARE IL REATO di tortura contro le persone in arrivo dalla Libia era stata prevista prima ancora della sua approvazione dall’allora procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. In un’audizione in senato nel maggio 2017 aveva detto: «I trafficanti potrebbero essere accusati anche di tortura per le sofferenze che fanno patire ai migranti». L’occasione fu colta a luglio 2019 dalla questura di Agrigento, responsabile per il territorio di Lampedusa e specializzata nella caccia allo scafista. Si cercavano i «capitani» dei barconi appena soccorsi dall’Ong Mediterranea, indagando a margine sul comportamento dei soccorritori. Era l’estate di Salvini al Viminale.

Rispondendo alle domande di routine della polizia (chi ha organizzato il viaggio? chi teneva il motore? che vi hanno detto sulla nave di salvataggio?) un giovane camerunese, Cyriaque Zanga, racconta di maltrattamenti, estorsioni e torture sofferte nel suo viaggio attraverso l’Algeria, il Niger e la Libia. Fa i nomi dei responsabili della prigione di Zawiya, sulla costa libica: il terribile capo dei carcerieri, l’egiziano Mohamed, e il suo assistente sudanese Yassine che ammazza di botte di chi si lamenta. C’era anche un sudanese, Mahmoud, che forse è sbarcato in Italia qualche mese. In che porto? Chiede la polizia. Zanga non lo sa, ma dice che lo saprebbe riconoscere.

QUATTRO GIORNI DOPO la polizia mostra a Zanga gli album fotografici delle persone sbarcate a Lampedusa negli ultimi mesi: Zanga dice di riconoscere il sudanese Mahmoud nella foto che ritrae un cittadino egiziano, Ashuia Mahmoud, arrivato quel 29 giugno. Nell’album dello stesso sbarco Zanga indica come carcerieri due persone che non aveva nominato nella prima deposizione: il guineano Mohamed Condé, detto Suarez, e l’egiziano Ahmed Hameda. Zanga fa anche i nomi dei suoi connazionali passati dal carcere di Zawiya e sbarcati in Italia, in grado di corroborare il suo racconto. La polizia raccoglie così altre cinque testimonianze: quattro contro Suarez, tre su Mahmoud, e solo due su Hameda.

Le carte passano alla Dda di Palermo, a cui tanto basta per spiccare i mandati di arresto. I tre si trovano nell’hotspot di Messina, dove il processo finirà per competenza territoriale. La notizia dei primi arresti per tortura fa sensazione: la stampa progressista celebra l’impegno della magistratura nel far luce sugli orrori dei campi libici. La stampa di destra ne approfitta per attaccare Carola Rackete: «Ha dato un passaggio a tre torturatori», scrive Il Giornale. In un messaggio interno, il team di comunicazione di Sea Watch invita lo staff alla «massima discrezione» sulla vicenda per non «gettare l’osso ai media di destra».

I migranti soccorsi dalla Sea Watch a bordo della nave nel giugno del 2019.
I migranti soccorsi dalla Sea Watch a bordo della nave nel giugno del 2019.

Così passano sotto traccia i dettagli del caso: quelli che puntano alle responsabilità istituzionali libiche e italiane, ma soprattutto l’evanescenza delle accuse specifiche contro gli imputati. Basata su sole sei interviste, l’indagine di Messina è molto meno dettagliata e precisa di inchieste giornalistiche e rapporti di organizzazioni come Medici senza frontiere sullo stesso tema. Le testimonianze raccolte dalla polizia raccontano l’economia delle estorsioni ai migranti che prospera in Libia in seguito agli accordi con l’Italia del 2017: il carcere di Zawiya, dicono i testimoni, è in mano a un certo Osama, che tortura i prigionieri per estorcere riscatti tra i mille e i duemila euro. Con lui collabora il miliziano Abdulrahman a cui mancano due falangi, che cattura i migranti in mare e li porta da Osama. È facile riconoscere in questi due personaggi i libici Osama al-Kuni e Abd al-Rahman al-Milad detto Bija, due trafficanti di Zawiya sulla lista di sanzioni Onu. Quest’ultimo, ha rivelato in seguito il quotidiano Avvenire, era stato ricevuto in Sicilia a maggio 2017 come membro di una delegazione di guardacoste libici, che in quel periodo l’Italia iniziava a finanziare, formare e rifornire di navi.

NON SUI DUE CAPI si concentrano gli inquirenti, ma sulla «zona grigia»: quella in cui i prigionieri del campo come Suarez si fanno complici dei loro aguzzini per comprarsi la libertà. «I carcerati che davano una mano – spiega un testimone – erano quelli a cui rimanevano tremila dinari. Aiutavano, così li facevano uscire». Secondo le testimonianze, il guineano Suarez gestiva un telefono con cui i prigionieri supplicavano familiari e amici di pagare i riscatti. I due egiziani lavoravano in cucina alle dipendenze del capo carceriere Mohamed. Le accuse, riportate dalla polizia in formule nette e standardizzate, si sgonfiano davanti al giudice: Suarez gestiva sì un telefono, ma spesso lo dava ai prigionieri a suo rischio, per consentire loro di contattare i propri cari al di là delle richieste di riscatto; tra lui e Osama era sorto un violento contrasto proprio a causa delle torture che il libico infliggeva ai neri. Sui due egiziani, Mahmoud e Hameda, le dichiarazioni sono ancora più scarne: il testimone camerunese Nchontcho dice che Mahmoud gli ha rotto i denti col calcio di un fucile. Su Hameda resta in piedi, oltre alla testimonianza di Zanga, solo una dichiarazione del ghanese Rashid: «Era il responsabile della cucina e non ha mai trattato male nessuno». Giudici, pm e avvocati cercano risposte nette: torturatore o cuoco? Prigioniero o guardia? Migrante o aguzzino? I testimoni offrono risposte sfumate: «Purtroppo una persona deve essere là per capire la situazione», dice Nchontcho.

Nell’arringa finale del processo di appello il procuratore generale di Messina ha paragonato l’indagine giudiziaria sulla prigione di Zawiya alla liberazione di Auschwitz. L’avvocato di Ahmed Hameda, Antonino Pecoraro, ha risposto con un invito alla sobrietà, indicando alle spalle dei giudici un ritratto di Vittorio Emanuele III: «Lo stesso re che nel 1912 ha autorizzato le truppe italiane a invadere la Libia… lo stesso che firmò le leggi razziali. I grandi principi lasciamoli fuori da quest’aula». Anche a voler seguire il paragone del procuratore, ha aggiunto, il ruolo degli imputati sarebbe al peggio quello di kapò: «Il kapò veniva utilizzato per picchiare e se non picchiava bene veniva picchiato a sua volta. Proviamo a metterci nell’ottica di quello che può avvenire là dentro».

La corte ha ritenuto gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti – associazione a delinquere, sequestro di persona finalizzato all’estorsione, tortura – condannandoli a 12 anni di reclusione. Quasi il doppio della pena massima inflitta nei processi ai kapò che seguirono alla seconda guerra mondiale: celebrati in tribunali israeliani, non certo nell’Italia alleata dei nazisti.