Chi evoca lo «choc» e chi spera nel «miracolo». La
Forza Italia ancora intontita dall’
escalation di
Matteo Salvini
è oggi un luogo a metà tra un’infermeria e una sagrestia. Ma sia che si
cerchi il guaritore o si pensi a un taumaturgo, il nome invocato è
sempre uno:
Silvio Berlusconi. Da
quelle parti è così. Cascasse pure il mondo, il rimedio è sempre il
salto all’indietro, all’intuizione del ‘94, al mito del partito liberale
di massa inteso come prateria in cui far galoppare le pulsioni della
sempre buona società civile. È la conferma, l’ennesima, della scarsa
familiarità degli “
azzurri” con la politica e della
loro refrattarietà a praticare al proprio interno il primo e più
semplice principio di un movimento liberal-democratico: la
contendibilità della
leadership. Mai un congresso, mai
le primarie. Il leader è inamovibile in quanto infallibile. Se le cose
vanno male è perché non c’è. E quando non vanno pure in sua presenza, è
solo perché è mal consigliato. Il coro interno non ammette stecche né
controcanti. Chi solo osa produrre un guizzo, uno svolazzo creativo
capace di spettinarne il conformismo è costretto a migrare (vero,
Fitto?) o a all’abiura (vero,
Toti?). Nessuno, beninteso, dice che bisogna mettere in discussione il
Cavaliere, ma solo che non dev’essere vietato farlo. Il tema del rilancio di
Forza Italia
passa proprio da qui, cioè dalla consapevolezza che anche i grandi
leader non sono eterni e che la successione è un meccanismo complesso,
tanto doloroso quanto necessario. Lo sa anche la dirigenza, ma al
coraggio delle posizioni preferisce l’applauso codino e consolatorio.
Avanti di questo passo e rischia seriamente di essere ricordata come
l’unica nomenclatura di stampo
nordcoreano senza occhi a
mandorla. L’alternativa al coraggio è il vivacchiamento in attesa della
soluzione geniale o dell’ennesimo coniglio estratto dal cilindro. Ma è
come condannarsi all’irrilevanza. E all’orizzionte c’è Salvini.
Che ha vento in poppa e commercio avviatissimo.
27 giugno 2018 - 13:30