giovedì 15 febbraio 2018

Il pusher non può essere espulso: «In Nigeria c’è la pena di morte» La Cassazione accoglie il ricorso di un detenuto pericoloso: rimarrà in Veneto



VENEZIA Per almeno due anni aveva venduto cocaina ai tossicodipendenti della zona tra Canizzano e il Terraglio. Una rete di clienti trevigiani tra i 25 e 40 anni che lo spacciatore riforniva senza neppure scendere dall’auto. L’avevano soprannominato il «pusher-pendolare» perché, una volta contattato, raggiungeva il luogo dello scambio alternandosi alla guida di due vetture, tenendo in bocca la dose. Il tempo di accostare, consegnare la cocaina e incassare il denaro. Poi spariva.
L’arresto nel 2012

La vicenda risale al 2012 e alla squadra mobile di Treviso erano serviti tre mesi di appostamenti per riuscire a individuare Lucky Haruna, nigeriano di 35 anni. Era già la seconda volta che finiva nei guai: nel 2010 era stato fermato per lo stesso reato. Ma uscito dal carcere, irregolare sul territorio italiano, era tornato a spacciare diventando uno dei punti di riferimento per i consumatori di cocaina della Marca. Fino al nuovo arresto.
La pena

Da allora, lo straniero sta espiando la sua pena: sei anni e otto mesi di reclusione, con termine previsto il 21 gennaio 2018. Fin qui, tutto normale. Come il fatto che, nella sentenza, il giudice avesse disposto che, una volta libero, Haruna dovesse essere accompagnato in un Cie e poi espulso: una misura di sicurezza dettata proprio dalla sua «pericolosità sociale».

La Cassazione

Ora però, questa decisione viene ribaltata dalla Cassazione secondo la quale, una volta lasciato il carcere, Haruna potrebbe vedersi concedere il permesso di soggiorno per «protezione sussidiaria», e in quel caso non dovrà essere espulso e potrà rimanere in Italia. Il motivo? Nella sentenza pubblicata pochi giorni fa, si spiega che la legge che consente l’allontanamento dal territorio nazionale «per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto, se ricondotto nel paese di origine, corra serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte (...) o a trattamenti inumani o degradanti».

L’appello

Un passo indietro. Haruna si era appellato al tribunale di sorveglianza di Venezia chiedendo di revocare la misura di espulsione, sostenendo di avere diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria perché, se tornasse in Nigeria, rischierebbe la pena capitale in virtù delle leggi vigenti nello Stato africano.

La Suprema Corte

La tesi però non aveva convinto il tribunale di Venezia, che aveva respinto l’appello. E a quel punto lo spacciatore si era rivolto alla Suprema Corte.

Il ricorso

Per i giudici della Cassazione, il suo ricorso è fondato. «La Corte europa per i diritti dell’uomo si legge nella sentenza - ha stabilito (...) che in considerazione del rischio di attuazione di trattamenti inumani, è compito di ogni organo competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso quel Paese, individuare e adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un’appropriata misura di sicurezza diversa dall’espulsione».

La protezione

Di conseguenza «va ritenuto esistente un margine irrinunciabile di protezione (...) assoluto e preminente anche rispetto a una condizione di constatata pericolosità sociale». Il tutto, tenendo conto che al diritto alla protezione «non assumono rilievo alcuno i reati, anche gravi, commessi dal richiedente in Italia».



Il nuovo esame

Per questi motivi la Cassazione ha annullato l’ordinanza rinviando la questione al tribunale di Sorveglianza di Venezia «per un nuovo esame», con la raccomandazione di tenere conto che, se davvero il detenuto rispedito in Nigeria corresse il rischio di finire in carcere in condizioni inumane, «il respingimento non è applicabile».

L’avvocato

Per l’avvocato Patrick Francesco Wild, esperto di diritto dell’immigrazione, «la sentenza va a ribadire un principio di civiltà, e cioè che la salvaguardia dell’incolumità e della dignità delle persone deve prevalere sempre e comunque, e va garantita anche a coloro che si sono macchiati di un reato»

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