martedì 11 luglio 2017

Immigrazione! La Svezia è fuori controllo e chiede aiuto.

Svezia, l'inferno islamico dove le donne hanno paura a uscire di casa
Katye Hopkins, una giornalista del 'Mail', ha documentato la situazione a Rinkeby (Stoccolma), tra le censure della sinistra e le minacce delle femministe
  "Non sono giunta in Svezia per seguire i disordini, o a seguito delle dichiarazioni di Trump: in effetti, dovevo essere qui ancora a dicembre, prima che gli scioperi degli aeroporti me lo impedissero. Sono venuta qui perché mi è stato chiesto. Più volte". Inizia un così un reportage della cronista britannica Katye Hopkins, pubblicato venerdì dall'edizione on line del Mail. "Le donne svedesi - racconta la cronista - mi hanno scritto sulla mail, o via lettera, per mostrarmi come è cambiato il loro paese; padri mi hanno scritto di essere preoccupati per le loro figlie, twittandomi che la Svezia non è affatto il paese che tutti immaginano, e che le ragazze hanno paura ad uscire la sera. Un immigrato dodicenne è stato stuprato in un centro di accoglienza da altri presunti migranti 'minori non accompagnati', che si è poi scoperto avere tra i 20 e i 45 anni. Questo ed altri casi simili sono stati rapidamente occultati".



Quando Trump ha portato l'attenzione del mondo sulla Svezia, parlando degli effetti che l'immigrazione ha avuto su quello che è visto come il paese più liberal del mondo, la situazione era già insostenibile e orde di immigrati hanno devastato Rinkeby, il quartiere a maggioranza islamica di Stoccolma noto come la "Piccola Mogadiscio", saccheggiando e bruciando macchine. Mentre la sinistra ha catalogato le accuse del presidente Usa come "notizie false", altri hanno evidenziato il caos di un quartiere in cui il 90% dei residenti è straniero. Sono state diffuse le statistiche sugli stupri a Stoccolma, che vedono la città svedese come la "capitale degli stupri d'Europa" anche se coloro che difendono a tutti i costi l'immigrazione senza controllo sono riusciti a contestare anche i dati, arrivando a parlare di una "anomalia statistica".



"Lucy, una giovane ragazza di 27 anni - racconta la Hopkins - oggi ha paura ad uscire di casa da sola. Lei vive vicino a un grosso centro commerciale che attira molti immigrati provenienti dai quartieri pericolosi, e la minacciano durante il percorso da casa al lavoro. Sotto il ponte vicino al suo appartamento stazionano bande di uomini, giorno e notte. Lucy gira sempre con uno spray al peperoncino in tasca e conosce a memoria tutti i casi di stupro avvenuti di recente; me li cita uno per uno e teme che la prossima vittima sarà lei. Dei ladri le sono entrati in casa la settimana scorsa, portandole via il computer, le chiavi della macchina, e infine la macchina. La polizia le ha detto che è troppo impegnata per aiutarla. Lucy non vuole far vedere le proprie fotografie, non perché teme un assalto da parte degli immigrati, ma da parte delle femministe, che già l'hanno accusata di essere razzista. Gli immigrati la spaventano, ma sono state le donne svedesi a metterla a tacere".



"Le ho viste in azione - prosegue la giornalista inglese - quando è stata trovata una bomba a mano in un cestino fuori da una stazione di polizia, in uno dei quartieri più pericolosi. Ho chiesto alla polizia chi fosse il bersaglio, e mi hanno detto che non lo sapevano. Ho chiesto al capo della moschea; lui ritiene il bersaglio fosse la polizia. Dopodiché, due donne mi hanno fermata dicendomi di non tirare in mezzo la moschea, di non mostrare la cosa come se avesse a che fare con gli islamici. Era una cosa che riguardava la polizia, non gli immigrati. Mi chiedo se si siano rese conto della situazione: una bomba in un cestino. Dodici ore dopo il mio atterraggio in Svezia, un centro di accoglienza è andato a fuoco, si sospetta un rogo doloso; una bomba è stata trovata in un cestino, diretta alla polizia o alla moschea; e un'altra bomba è esplosa a Malmö, ferendo una persona".



"È incredibile - scrive la Hopkins - che tutto ciò accada nella Svezia del ventunesimo secolo, una terra idolatrata per i suoi ideali ultra avanzati. Un cameraman della TV di stato svedese mi ha chiesto perché questi episodi dovessero essere politicizzati a tutti i costi: perché non si poteva solo dire che qualcuno aveva messo dell'esplosivo in un cestino? L'ho guardato chiedendomi chi tra me e lui fosse pazzo. Una volta tornata nel quartiere pericoloso, quello che la settimana prima era messo a ferro e fuoco sotto gli occhi del mondo, ho realizzato che ero l'unica donna in giro. Tutti gli altri erano giovani maschi africani. Ho rivolto alcune domande sugli scontri della settimana precedente. Mi hanno risposto 'vaffanculo', 'troia bianca', 'torna dalla mamma', facendo gesti piuttosto eloquenti di cosa avrebbero fatto alle loro 'fidanzatine bianche'. Il mattino successivo, sono andata in un centro multiculturale femminile a chiedere alle donne dove fossero quella notte; perché si erano chiuse in casa; perché, in un paese così fiero dei propri principi di uguaglianza, non alzavano la voce".



"Una donna - prosegue la cronista - mi ha spiegato: 'C'è uno strano codice morale qui a Rinkeby. Sei molto più esposta al rischio se non sei musulmana. Questi uomini credono di poterti fare di tutto, se non indossi una jihab o almeno non ti copri i capelli'. Un'altra, Bessie, mi ha detto: 'non usciamo la sera, è troppo pericoloso. Io vivo qui da 25 anni e la situazione è andata sempre peggiorando'. Parwin incolpa le moschee: 'È a causa di ciò che gli insegnano lì dentro. Sono salafiti, come quelli dell'ISIS. Dovrebbero chiuderle, perché è lì che i bambini vengono indottrinati'. Tutte, comunque, sono d'accordo: non è sicuro uscire. Tutte sono spaventate: musulmane, cristiane, giovani e vecchie".



"Mi sono sentita - conclude la Hopkins - molto vicina a queste donne: a proprio agio tra di loro, ma terribilmente sole a casa. Solo quattro di loro parlano svedese; le altre si affidano ancora all'arabo, anche dopo 25 anni. Sono uscita di lì molto triste. Triste perché perfino in una nazione che si vanta di essere all'avanguardia nei diritti femminili esistono casi del genere: donne di ogni età e religione chiuse in casa per paura; uomini che mi danno della troia bianca e mi dicono in faccia che cosa mi farebbero; dove sono le donne a svilire le altre donne lanciando accuse di razzismo; dove un giornalista vuole farmi accettare che una bomba in un cestino è normale. In coda per prendere l'autobus, circondata da queste persone, non mi sono mai sentita tanto sola".

martedì, 11, luglio, 2017

di Max Ferrari

La Svezia è fuori controllo, quasi persa, e ad ammetterlo è Dan Eliasson, il capo della polizia, che in tv descrive una situazione da guerra civile, con intere aree del paese sfuggite all’autorità dello Stato, e conclude con un disperato appello ai cittadini: «Aiutateci, aiutateci!».



«Ad essere fuori controllo è lui», reagisce rabbiosa la stampa progressista, ma c’è la conferma di Anders Thornberg, capo dei servizi segreti (Säpo), che alza addirittura l’allarme parlando di terroristi e spiegando che «dai 200 monitorati nel 2010 si è passati a qualche migliaio», capaci di colpire in Svezia e altrove, soprattutto le decine di foreign fighter di ritorno dalla Siria.

Ma perché improvvisamente i vertici di polizia e servizi rompono il muro di omertà? La ragione si desume da un servizio della Nrk, la Rai norvegese, che lo scorso settembre ha svelato come ogni giorno in Svezia tre agenti si licenzino e l’80 per cento pensi di cambiare lavoro. Eliasson ammette che le aree “vietate” a polizia e pompieri sono diventate 61, sono sempre più estese e 23 di queste, attorno alle città più grandi, sono considerate “particolarmente rischiose”. Da lì la polizia si è ritirata: commissariati chiusi e controllo, de facto, demandato a 200 gang che armano almeno cinquemila delinquenti. Persino le ambulanze chiedono di entrarci con attrezzature da zona di guerra.

I “populisti” di Sd (Sverigedemokraterna), schizzati al 18 per cento nei sondaggi, spingono per l’intervento dell’esercito a Malmö, e Adam Marttinen, responsabile giustizia del partito, spiega che occorre ridare pieni poteri alla polizia, revocare la nazionalità agli estremisti, impedire i programmi di accoglienza per i terroristi di ritorno dalla Siria ed espellere chi delinque. Tutto il contrario della ministra della Cultura e Democrazia, Alice Kuhnke, che alla TV di Stato accusò i comuni di non fare abbastanza per accogliere nuovamente chi era andato a combattere. La città di Lund che propose ai terroristi di ritorno una casa, dei sussidi e lavoro socialmente utile, pareva infatti un’eccezione, ma una recentissima inchiesta di Expressen ha svelato una realtà inquietante: decine di fanatici che avevano postato sui social loro foto con teste mozzate e nemici uccisi sono stati riaccolti in Svezia e vivono protetti con un nuovo nome concessogli dalle autorità. Delle preziose risorse da proteggere, pare. Pentiti? A leggere le interviste non sembra proprio. Per il governo però la situazione è “sotto controllo”, non c’è overdose di migranti e il terrorismo non colpisce la Svezia. No? E la strage di Stoccolma?

L’imbarazzante sito internet che il governo usa per controbattere alle cosiddette “fake news populiste” spiega che si è trattato di «un sospetto attacco terroristico, ma i motivi non sono ancora chiari».
Emblematico di questo negazionismo di Stato il caso della ministra degli Esteri Margot Wallström, che dopo le stragi di Parigi del novembre 2015 (130 morti) suggerì che fossero una reazione alla «frustrazione» per la situazione palestinese. Ma le comode spiegazioni, nota la giornalista Annika Rothstein, non reggono più: «La Svezia – dice Rothstein, che collabora con Israel Hayom e Jerusalem Post – è notoriamente contro Israele, filopalestinese e neutrale in ogni conflitto, eppure oggi è nel mirino. Evidentemente la spiegazione è un’altra e non è la povertà, visto che una famiglia di migranti di 4 persone, oltre alla casa, riceve più di 3.000 euro in sussidi al mese». Annika spiega come la Svezia, che già nel 2014 aveva circa 400 mila musulmani su 9 milioni di abitanti, tra il 2015 e il 2016 ha accolto altri 150 mila migranti «da paesi dove le opinioni sulle donne, la sessualità, l’eguaglianza e la separazione tra Stato e religione sono molto diverse dalle nostre.

C’è un inevitabile scontro di valori, e ci si rifiuta di ammettere che esso può solo intensificarsi: vediamo l’impennata dei delitti d’onore, gli stupri coperti dalla polizia e dai media e la segregazione sessuale accettata per accontentare i fanatici». Dopo le violenze sessuali di massa che fecero scalpore a Colonia, Rothstein scoprì che anche in Svezia la polizia, pur al corrente di atti simili, avesse deciso di non parlarne perché i sospettati erano qualificati come “rifugiati”. Supposizioni? No, il capo della polizia di Stoccolma, Peter Agren, ammise alla stampa che «è un tema sensibile. Abbiamo paura di dire la verità perché potrebbe favorire la propaganda populista».

Significativo anche il “caso Trump”, scoppiato quando il presidente americano, parlando di estremismo in un comizio il 18 febbraio scorso, ha detto: «Guardate cosa succede in Germania, a Bruxelles, in Svezia, a Parigi…». Governo svedese e mass media mondiali si sono affrettati a ridicolizzarlo: in Svezia non succede niente e nulla succederà. Pochi giorni dopo un tir lanciato da un islamista uzbeko sulla folla a Stoccolma ha dimostrato che si sbagliavano, ma Trump si riferiva ad altro: parlava di un documentario di Ami Horowitz, trasmesso da Fox negli Stati Uniti, in cui poliziotti svedesi ammettevano la loro impotenza rivelando che, anche in caso di inseguimento, le loro auto si fermano all’entrata dei quartieri a rischio, dove circolano armi da guerra e droga ma gli estremisti sono intoccabili poiché chi osa farlo è accusato di razzismo.

Amun Abdullahi, musulmana scappata dalla Somalia e diventata giornalista della radio pubblica svedese, pensava fosse giusto raccontare come gli estremisti di Al Shabaab reclutassero giovani nelle periferie di Stoccolma. Ma «anziché ringraziarmi, i colleghi di sinistra mi dicevano di stare zitta e cominciarono a ostracizzarmi. Ero odiata e accusata di dire cose che, seppur vere, favorivano la destra». Minacciata e delusa, Amun è tornata in Somalia perché «Stoccolma è più pericolosa di Mogadiscio». Stessa sorte per Hanif Bali, deputato musulmano di origine iraniana che rivela: «Si parla di dialogo ma quando dico cose positive sugli ebrei ricevo fiumi di email minacciose da immigrati arabi e gente di sinistra, è davvero pericoloso parlare».

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